Le grandi ed essenziali armi concrete per combattere oggi il coronavirus sono il distanziamento personale e la accurata igiene di tutti e di tutto, in parallelo con l’avanzare della ricerca medica specifica.
Nel quadro drammatico che si è creato, comprensibilmente è stato deciso, insieme con il distanziamento fra persone e con le misure di igienizzazione, anche il blocco complessivo delle attività economiche, salve quelle direttamente connesse con la immediata sopravvivenza delle persone stesse e della collettività relativamente alle loro esigenze primarie.
Pensiamo peraltro che, messa in tal modo sotto controllo, per quanto possibile, la crudele dinamica della pandemia nella sua attuale fase imperversante, sia ora indispensabile procedere con grande tempestività, e insieme con grande saggezza e prudenza, anche a riavviare le altre attività produttive, al fine di rimettere in piedi gradualmente i mezzi stessi con i quali sarà possibile affrontare l’altro lato del coronavirus, cioè il dopo-coronavirus.
Infatti, per una politica sociale di sostegno affidabile alle persone ed alle famiglie in difficoltà occorrono risorse, e le risorse possono ottenersi soltanto con una economia che riprende a produrre con rallentata e controllata ma pur sempre strutturale e completa continuità.
Se il blocco delle attività economiche continuasse con l’attuale sostanziale totalità, infatti, il rischio gravissimo, e già profilantesi, può essere addirittura peggiore dell’attuale pandemia: è il rischio di una spaventosa pandemia a base di suicidi da fallimenti d’impresa e da disoccupazione; pandemia morale che tragicamente è spesso accompagnata dal rischio di un crescere di incomprensioni e violenze anche domestiche, di cui pare intravedersi l’inizio, per quanto poco annunciato.
Capacità tipica e necessaria di una politica alta è insomma sempre, e in particolare in casi come questo, quella di vedere ogni problema nella sua piena contestualità, oltre che nella vistosa urgenza dell’oggi.
Ebbene, l’attuale tempesta del coronavirus, maledetta ma anche potenzialmente provvidenziale, ci offre nostro malgrado un potente stimolo per cominciare concretamente a rivedere, con attenzione alle singole situazioni ma con visione generale, soprattutto l’organizzazione del lavoro, perché diventi, e resti anche per il futuro, meno demoniacamente dominata dalla velocità parossistica e dall’assembramento umano ubriacante, entrambi schiavi della pazza logica del massimo profitto, e più guidata dalla saggia e ponderata distensione di tempi e ritmi capace di dare spazio armonicamente a tutte le esigenze di vita, non solo materiale, e di rigenerare con ciò, in particolare, dimensioni umane, civili, sociali e lavoristiche di autentica comunità.
Quello che né politica, né impresa, né sindacato, né scuola, né altre istituzioni, né la società complessiva, hanno saputo fare in questi ultimi decenni, preoccupati pigramente, vigliaccamente, stupidamente e parassitariamente di gestire rispettive certezze e prebende di status dove comode, urge che sia avviato adesso dietro il pungolo violento del “carognavirus”, e che anzi venga, ove necessario, imposto: con la coscienza e il ragionamento, dove sopravvivono, con la lotta culturale e politica dove solo questa sia l’arma rimasta.
L’organizzazione del lavoro va rivista in generale, per essere avviata a diventare veramente comunitaria, come dicevamo, cioè a misura di persona e di comunità, e non di profitto speculativo e finanziario riservato ad azionisti e giocatori di borsa. Il profitto non viene certo da noi negato, anzi resta fonte di giusta stimolazione migliorativa, ma deve essere da un lato strutturalmente condiviso con tutti i lavoratori coinvolti, dall’altro sottomesso al criterio del “limite fino a un certo tetto”. Ai nostri amici laici ricordiamo fra l’altro che questo duplice criterio non appartiene soltanto a noi cristianamente ispirati ma è anche l’insegnamento e la testimonianza di grandissimi maestri laici di vario orientamento politico e ideologico, da Federico Caffè a Luigi Einaudi a Francesco Forte (cui si riferisce il virgolettato di poche righe sopra riportato) ed a tanti altri. Anche i salari devono essere avviati ad armonizzazione fra tutti i lavoratori di ogni impresa, senza eccezione alcuna, cioè compresi i trattamenti della dirigenza, pubblica e privata, compresa quella politica. Armonizzazione che per essere vera esige una trasparente e non aggirabile relazione di proporzionalità fra i diversi gradi di inquadramento dalla base al vertice. Solo così si riprenderà una economia forte, sana, stabilmente capace di crescita e di solidarietà attiva.
Sul particolare versante della politica, per lo stesso obiettivo generale urge restituire ai cittadini quel principio e valore centrale della democrazia, per il quale gli elettori si recano alle urne per scegliere nominativamente i loro singoli parlamentari e amministratori, non per scegliere liste o partiti, i quali sono soltanto strumenti per evidenziare e garantire meglio programmi e orientamenti delle persone candidate. E per il quale, inoltre, va contestualmente ridotta a decenza e buon senso (senso buono ed onesto) la strangolante e vituperosa e mafiosa numerosità attuale delle firme burocratiche da raccogliere oggi perché un cittadino possa candidarsi: massonica macchinazione concepita con la connivenza attiva di sostanzialmente tutti i partiti politici attuali per impedire l’ingresso in politica a chi non sia cooptato dalle segreterie partitiche; dando esito a quella che con piena precisione anche tecnica può oggi essere chiamata non già democrazia ma oligarchia.
Quanto alla scuola, essa deve tornare rapidamente e gagliardamente a svolgere programmi di formazione umana e umanistica della personalità dei ragazzi, a tutti i livelli ed in tutti gli ordini, ponendo fine alla barbarie delle sedicenti competenze tecniche che riducono le persone a macchine stupide e manipolabili. Occorre umanesimo per fare civiltà autentica, ma occorre umanesimo anche soltanto per fare buona e utile scienza. Non dovrebbe esserci davvero ulteriormente bisogno, oggi, di dimostrare la insulsaggine e irresponsabilità radicale della sloganistica politica che ha portato alla miserevole “scuola delle tre i, cioè internet-inglese-impresa” di berlusconiana memoria.
Al movimento sindacale, e oggi specificamente ed esplicitamente a Landini-Furlan-Barbagallo, chiediamo la lealtà umana e morale e civile di riprendere sollecitamente a pensare, studiare e assumersi responsabilità, ponendo fine al tradimento degli slogans a base di “rivendicazioni e piattaforme accolte oppure sarà sciopero”, che costituiscono, in se stessi e radicalmente, un approccio privo di contenuto responsabile, oltre a lasciare i lavoratori e la intera società in stato rancoroso, sperequato e rimminchionito. A loro ed ai loro colleghi della dirigenza aziendale ricordiamo anche una nostra antica proposta di portata più tecnica ma ugualmente densa di significati anche morali, e cioè la necessità di porre fine alla di differenziazione di contratti fra “dipendenti” e “dirigenti” per unificare entrambe le categorie in un unico contratto collettivo. Né ci si rimproveri di demagogia a buon mercato: questa proposta veniva da noi formulata anche quando avevamo personalmente la qualifica ed il ruolo di dirigenti d’impresa. E’ in realtà semplicissima questione di trasparenza e onestà.
Così come alla impresa chiamata a gestire beni comuni chiediamo, aggiuntivamente allo spirito di comunità che deve caratterizzare ogni azienda anche privata, di porre termine alla rovinosa mentalità bocconian-luissina per la quale i risultati vengono valutati in chiave di finanza e di borsa piuttosto che in chiave di benessere prodotto e condiviso, cioè di bene comune. E’ la realizzazione di quest’ultimo che qualifica il successo d’impresa, non la droga artificiosa dell’azzardo borsistico né dello spread né del fognante operato delle agenzie di rating.
Agli inadeguati gestori della pubblica istruzione degli ultimi lustri, se ancora si occupano di formazione, ed agli odierni loro successori e attuatori, chiediamo di porre termine all’immorale e autolesionistico criterio del numero chiuso per l’accesso al sapere universitario, cioè allo sviluppo dei talenti, diritto assoluto di valore sia naturale sia costituzionale. Come ai loro colleghi dell’economia e delle finanze chiediamo di semplificare e ridurre a criteri umani e civili la tassazione persecutoria e frantumata, adottando il criterio trasparente della deduzione delle spese, da parte dei cittadini, in dichiarazione dei redditi.
Come al legislatore in generale, diventato responsabile di un pessimo bizantinismo normativo, chiediamo di tornare a parlare la semplice e trasparente lingua italiana tutte le volte che legiferano: quella lingua italiana che, lo ricordiamo loro, deve far sì che la legge venga capita direttamente dal comune cittadino, secondo il principio morale che, se “la legge non ammette ignoranza”, nello stesso tempo “la legge non deve ammettere neppure difficoltà a essere evidente e semplice per tutti in quello che prescrive”: altrimenti essa è abusiva e anticostituzionale. Oltre che essere stupida, come insegnavano già gli antichi romani collegando giustamente il gigantismo della normativa con la ingiustizia della normativa.
All’Europa, infine, o meglio ai suoi governi, chiediamo di uscire dal tradimento da essi perpetrato nei confronti di tutti gli ideali con i quali l’abbiamo fondata, autentica matrice di esempio per la progressiva costruzione di un mondo unito, e non camorra finanziaria di un gruppo di Stati potenti della terra: ai quali ultimi, o meglio ai loro governi, ricordiamo in particolare che la nostra Italia, se può essere rimproverata, come effettivamente deve essere fatto, di avere un’amministrazione e una dirigenza spesso colpevolmente disordinate e affastellate, e un’opinione pubblica spesso frantumata, è pur sempre, e di gran lunga, da duemila anni ininterrotti, la nazione in possesso del più grande patrimonio culturale del pianeta, e che tale patrimonio essa ha generosamente dato a tutto il mondo, in bellezza, diritto, cultura, arti, religione, scienze e scoperte scientifiche e realizzazioni tecniche e civili ed umane e spirituali. Un primato che merita rispetto, solidarietà attiva e ammirazione, oltre che esigere dagli stessi italiani il dovere assoluto della coerenza gestionale. Se l’Europa non si mostra in grado di garantire tale fondativa e storica esigenza di lealtà, logico e doveroso sarà infatti per il nostro paese rivolgersi a costruire elementi di comunità alternativa con i paesi del mondo che meglio ne capiscano l’afflato ideale, come di recente hanno testimoniato anche nazioni e realtà di piccola e umile caratura economia e geografica quali l’Albania.
Tornare persone, tornare comunità. Tutti. Senza che nessuno, ma davvero nessuno, possa sentirsi esonerato, a nessun livello, dall’adempimento onesto e attivo del proprio personale dovere e del proprio contributo.
Giuseppe Ecca