Tutti i partiti che hanno manifestato sostegno al nascituro governo, hanno dichiarato di voler mettere, davanti a ogni calcolo personale, il primario interesse del Paese. È normale che sia così. Le forze politiche che si sono scontrate negli ultimi anni nell’”arena” parlamentare, con i toni belligeranti del bipolarismo, dovevano in qualche modo giustificare le ragioni nobili del raggiungimento della tregua. Lo hanno fatto, non senza aver valutato costi e benefici, adottando la liturgia classica della salvaguardia dell’”interesse nazionale”. Quale argomento, più alto dell’invocazione dell’interesse nazionale, può meglio spiegare che è arrivato il tempo di deporre l’ascia di guerra?

Non resta che rallegrarci di questo auspicabile proposito, da conseguire sotto l’ala protettiva del futuro autorevolissimo capo del governo. Per la comprensione più vasta di tutto quanto sta capitando, è bene però dar conto anche dei secondi fini, che inevitabilmente si produrranno.

Il sostegno del Partito democratico intende confermare il proprio ruolo, auto-definito di “asse portante” del sistema politico italiano.

Forza Italia, sollecitata anche dal PPE, si deve distinguere dai movimenti sovranisti, per non finire nell’insignificanza, dopo la perdita dell’elettorato “moderato” residuo.

Il Movimento 5 Stelle si trova nella posizione più difficile. Tra il ritorno barricadero alla stagione del “vaffa” e l’interruzione del percorso di legittimazione europea, ha valutato che, in tempi di pandemia, sono più convenienti gli atteggiamenti costruttivi, “alla Conte”. Del resto, se il vero nemico da battere è il Covid-19, per il buon governo è meglio la pace della guerra. E poi, la battaglia contro il virus si vince meglio se si sta tutti dalla stessa parte.

C’è poi la Lega, della cui voglia di legittimazione europea ho già detto in un altro breve commento ( CLICCA QUI ). Sulla Lega però voglio tornare, perché la sua adesione alla scommessa Draghi è ricca di altre concrete implicazioni.

Salvini sa perfettamente che il nascituro governo sarà a termine. Durerà soltanto fino all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Per un anno circa. Sa anche che la maggioranza che sosterrà Draghi sarà presumibilmente la maggioranza che eleggerà il nuovo Capo dello Stato. Immagina che, come tanti pronosticano, sarà proprio Mario Draghi a salire al Quirinale. Meglio dunque far parte a pieno titolo dell’elettorato attivo della più alta carica dello Stato, tanto più che, secondo i sondaggi, potrebbe essere proprio Salvini il pronosticato presidente del Consiglio in pectore della nuova legislatura.

Questo è il verosimile quadro delle convenienze, che non contrastano però con il favorevole quadro complessivo delle benefiche ricadute che si potrebbero riversare nelle rinnovate prassi parlamentari e di governo. Tutto questo almeno per uno anno. E dopo? Dopo l’elezione presidenziale la guerra guerreggiata ripartirà?

È augurabile che, esaurita la stagione della convivenza, gli elettori abbiano imparato a non cadere più nel tranello di chi alza i toni solo per carpire consenso. L’esperienza Draghi potrebbe essere la migliore testimonianza che, nell’arena parlamentare ci si può confrontare anche con civiltà, con nobili argomenti, competenza, cultura, sensibilità. Una comunità nazionale può dividersi tra governo e opposizione, tra maggioranza e minoranza, non può dimenticare però che uno Stato sta in piedi soltanto se c’è un comune sentire, grande o piccolo che sia.

Le reciproche delegittimazioni comportano ricadute disastrose sulla tenuta civica dell’intera comunità. Non c’è filosofo, della cultura politica antica e contemporanea, che non riconosca quanto sia grave fomentare la divisione all’interno di un popolo. Un popolo è fatto di con-cittadini, non di monadi tra loro stabilmente rissose. Oltre che per le note ragioni programmatiche, la formula Draghi va guardata con grandi aspettative, anche perché è augurabile che possa rigenerare un rinnovato senso della comunità nazionale, da far valere per l’oggi e per gli anni a venire.

Guido Guidi

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