Che possano esserci varianti connesse a mutazioni progressive del virus non è una novità per nessuno, tanto più in un esemplare a RNA come il coronavirus che, fino a questo momento, di mutazioni più o meno rilevanti sul versante clinico ne ha collezionate centinaia rispetto all’esordiente 2019 nCOV responsabile del primo contagio cinese a Wuhan.

Tuttavia, nella scala delle priorità da analizzare e da studiare forse bisognerebbe anteporre, a quelle incontrollabili del virus, le varianti individuali riferite all’uomo che di quel virus costituisce il bersaglio soccombente, prima che la rivendicazione nazionale della variante ultima scoperta possa diventare elemento prioritario della discussione. Una discussione tutto sommato asfittica nella quale, a fronte di una circolazione non tracciabile del virus, la forma italiana verrebbe storicamente prima di quella inglese che, tuttavia, rispetto all’italiana sarebbe più cattiva perché più contagiosa, salvo poi a verificare al 03/01/21 un tasso di positività dell’11,6% in UK rispetto al nostro del 17,6%.

E torna, allora, una questione antica e, dopo un anno, ancora irrisolta: perché a parità di condizioni logistiche, lavorative, abitative, sanitarie, uno si ammala di CoViD-19 e un altro no? E perché, sempre a parità di pre-condizioni e a parità di trattamento terapeutico intensivo, un ammalato di CoViD-19 muore e un altro, invece, sopravvive all’infezione e alle sue pesanti conseguenze cliniche? Fino a questo momento, ove si scarti la più recente scoperta “italo-inglese”, si è trattato pur sempre dello stesso virus! Quindi, escludendo l’ipotesi scientificamente poco accreditabile della “sfiga”, sulla base di cosa un virus dai connotati genetici assolutamente identici ad ogni latitudine, decide di essere aggressivo ovvero indulgente sui suoi tanti bersagli umani, ammazzandone alcuni e ignorandone altri?

Sappiamo di indagini già a suo tempo avviate da prestigiosi Gruppi di ricerca e finalizzate ad individuare alterazioni genetiche in grado di rendere determinati soggetti più vulnerabili rispetto ad altri. Le prime scoperte relative a questo filone di ricerca hanno evidenziato come la suscettibilità all’infezione possa essere, in una discreta percentuale di soggetti, correlata a turbe cromosomiche responsabili di una insufficiente produzione di interferoni e altre sostanze a loro volta capaci di contrastare l’aggressione del SARS Cov-2.

Ma basta la genetica per applicare ad un fenomeno complesso e sotto molti aspetti ancora incompreso qual è la Pandemia CoViD-19, i paradigmi analitici di quella Precision Medicine che rappresentò forse il più straordinario tra i cinque punti programmatici dell’ultimo anno dell’amministrazione Obama? D’altro canto, la chiave di lettura per un più corretto inquadramento del problema non può non considerare, oltre all’esplorazione genomica dell’uomo e dei virus, alla proteomica, alla trascrittomica, all’epigenomica e ad altre scienze omiche, anche l’analisi delle circostanze personali della vita del paziente, il suo microbiota, le sue risorse, la situazione sociale e perfino la sua personalità. Indiscutibilmente questi aspetti della “persona” influiscono sulla suscettibilità individuale alla malattia e condizionano anche il modo con il quale la malattia – ogni malattia –  peserà sulla persona colpita e come il malato risponderà alle terapie.

E poi c’è l’ambiente che, come abbiamo già dimostrato in nostra una recentissima pubblicazione, in forza di alcune sue peculiarità potrebbe essere in grado di modulare l’espressione, nelle persone che lo abitano, di strumenti utili al virus per accedere nelle cellule dell’ospite.

Si tratta di condizioni, da quella genetica, a quella ambientale, a quella riferibile agli ambiti della cosiddetta “personomica”, tutte oramai ben documentate e per effetto delle quali ad essere elemento che decide l’insorgenza della CoViD-19 ed eventualmente la sua gravità, potrebbe non essere tanto il SARS Cov-2 in quanto tale, ma la particolare suscettibilità e vulnerabilità dell’uomo che potrà essere colpito da quel virus.

Così formulato e magari adeguatamente considerato, questo approccio ragionato e “personalizzato” alle incursioni diversificate del nuovo coronavirus potrebbe costituire elemento d’analisi affatto teorica, semmai utile a portare anche gli strenui sostenitori delle mutazioni transnazionali a considerare che esistono “varianti” di rischio tra persone, esclusivamente dipendenti da queste ultime e non dal virus. Ed è su queste varianti che forse bisognerebbe riflettere e studiare prima del prossimo pronunciamento che al primo posto ponga ancora una volta il virus e non invece un profilo di rischio individuale oggettivamente valutabile sul singolo paziente o, semmai, su cluster di pazienti omogenei.

Mauro Minelli

 

 

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