Le ideologie sorgono e poi tramontano, la “persona” resta e non viene mai meno. Anche la declinazione radicale, cui il PD sempre più si piega, si rassegna o si adatta sul piano dei diritti civili è una forma di ideologia.

Mi permetto di farlo osservare ad un amico lombardo, cattolico e convinto sostenitore del PD, il quale afferma che, a suo avviso, “l’esperienza politica dei cattolici (è) definitivamente superata dall’evoluzione sociale, culturale e politica” cui siamo andati incontro. Nonché, per “la frammentazione e dispersione del mondo cattolico”.

Mi spiace dovergli dire che, con tali affermazioni, prende una solenne cantonata, anzi due, ed è piuttosto lui ad attardarsi nel passato. Infatti, nei presupposti del suo pensiero c’è un evidente riferimento al “partito cattolico” ed all’ “unità politica dei cattolici”: due versanti che nulla hanno a che vedere con la nostra iniziativa politica e che, anzi, per approdare ad INSIEME, abbiamo programmaticamente escluso.

Il nostro compito è piuttosto un altro: proporre agli italiani – tra le altre, offerte dal mercato della politica – un’opzione in più che faccia riferimento ad una visione cristiana dell’uomo e del processo storico in cui prende forma e si sviluppa la sua vita. In altri termini, una visione ispirata ad una “cultura della persona” come soggetto di relazioni che, per quanto i credenti non possano revocare a sé l’esclusiva del pensiero “personalista”, spetta soprattutto a loro promuovere. Nella consapevolezza che esattamente qui sta il nodo di quella “trasformazione” su cui insistiamo da tempo: lo sforzo, la fatica di passare da una evocazione retorica del valore della persona – che fanno un po’ tutti e va bene a chiunque – alla prefigurazione di quella che Aldo Moro chiamava, fin dai suoi scritti giovanili, la “società del valore umano”.

Come incardinare sulla persona, cioè sulla libertà di ognuno e sulla responsabilità singola di ciascuno, piuttosto che sull’astratta funzionalità degli apparati, non solo politiche settoriali – ad esempio la sanità oppure le scuola – bensì anche quelle “sistemiche”, le politiche economiche e del lavoro, le stesse politiche istituzionali?

C’è un enorme lavoro da compiere, nuove categorie interpretative del divenire sociale da mettere a fuoco e con cui soppiantare quelle consunte che pure ancora tengono il campo. Né si tratta di un’elaborazione da fare a tavolino, nella confortevole, asettica ed un po’ accademica serenità di un “centro studi”, oppure nel preziosissimo ed indispensabile impegno di formazione delle coscienze, bensì osando i tornanti impervi della politica.

Quando parliamo di “autonomia” non ci riferiamo tanto ad un dato di schieramento, quanto piuttosto alla necessità di un’elaborazione culturale e politica che abbia nella “persona” il suo “baricentro”, senza nulla concedere alla suggestione del momento ed alle mode contingenti del pensiero, bensì cercando di rivisitare e riproporre il meglio dell’ enorme patrimonio di cultura politica che i cattolici custodiscono.

Ha ragione, ad esempio, Maritain quando sostiene come la politica sia una parte dell’etica, oppure Benedetto Croce che gli rimprovera, con parole crude e quasi irridenti, la sua concezione “anti macchiavellica” della politica? E quest’ anno, centocinquantesimo anniversario della morte di Manzoni, senatore del Regno e lombardo adottato, come cittadino onorario, da Roma, non è forse l’occasione per risalire con lui fino a Rosmini e alla stagione del “cattolicesimo liberale”? Ricorrono, altresì,  quarantacinque anni dall’ uccisione del Presidente Moro e noi, nel suo sacrificio, riscopriamo la forza di una presenza popolare e solidale, propria di quell’ispirazione  cristiana purtroppo smarrita, pur dopo il sangue versato.

Dopo di che, è talmente vero che nessuno di noi immagina, come dire, una politica “di potenza” che non ci fa velo considerare la suddetta “frammentazione e dispersione” dei cattolici, non una dissipazione, ma piuttosto una ricchezza. Un pluralismo che, in definitiva, denota una libertà di spirito e documenta come il cosiddetto “mondo cattolico” sia irriducibile ad una “militarizzazione” ideologica. E questo è, ad un tempo, un portato storico e tuttora, in vista di una corretta lettura della transizione in cui siamo immersi, una rilevante opportunità.

Il compito che oggi compete ad una forza politica che osa chiamarsi di “ispirazione cristiana” è, anzitutto, rendersi conto della sfida che, definendosi tale, pone a sé stessa e, nel contempo, essere cosciente della propria insufficienza a fronte di una simile fatica. Si tratta di assumere un onere delicatissimo: trovare gli argomenti, inventare le parole nuove, necessarie a mostrare, anche a chi provenga da altre e differenti culture, quale sia l’intensità di valore umano e quale sia la potenziale ricchezza anche sul piano civile dei principi e dei valori che i credenti hanno ricevuto in dono in uno con la fede. Senza attendere o invocare protezione o sostegno da parte della Chiesa, ma piuttosto facendosi carico, se mai se ne fosse capaci, di dimostrare, nel concreto della proposta e dell’ azione politica, l’efficacia storica dei valori che più ci stanno a cuore.

La “persona” resta, e con lei resta nel tempo, e sia pure a fasi alterne, la cultura politica cattolico-democratica e popolare. Ci sono voluti i lunghi anni del non-expedit e dell’ “Opera dei Congressi” per approdare alla breve stagione del Partito Popolare, altri vent’anni anni di emarginazione per giungere alla Democrazia Cristiana. L’uno e l’altra espressioni contingenti, appropriate al loro momento storico, di una linea di pensiero che può vivere stagioni più o meno felici, ma contingente non è. Il nostro impegno fa riferimento al valore trascendente della “persona” e, pertanto, è in grado – diversamente da quanto succede a qualunque ideologia – di andare oltre la particolarità di questa o quella fase storica.

Come se la vicenda della cultura cattolico-democratica fosse soggetta ad un movimento di diastole e di sistole, passando da un ciclo storico ad un’ altro, da momenti di diretta assunzione di una responsabilità di potere ad altri di ascolto e di sperimentazione di nuove modalità di presenza. C’è un ritmo della storia che va compreso ed assecondato. Dovremmo imparate dagli indiani che appoggiano l’orecchio al suolo per sentire dallo scalpiccio dei cavalli da dove vengono e a che distanza sono.

Anche noi dovremmo ascoltare il brontolio dei tempi nuovi che interpellano la politica, non osservandola da fuori, bensì vivendola attivamente, con personale impegno, giorno per giorno.

Domenico Galbiati

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