Abbiamo già avuto i guai provocati dalla cosiddetta “finanza creativa”. Adesso l’onorevole Giancarlo Giorgetti si cimenta nella “politica creativa”. Stando almeno alle dichiarazioni che gli sono state attribuite, egli ipotizzando che Mario Draghi potrebbe andare al Quirinale e, da lì,  continuare a fare il Capo del governo. Perché questo significa quanto gli è stato attribuito aver detto: ” Draghi potrebbe guidare il convoglio anche da fuori. Sarebbe un semipresidenzialismo de facto”.

Ma ciò “creando”, non rischiamo di finire fuori completamente dal dettato costituzionale? Giacché la nostra Carta fondativa della Repubblica punta proprio alla realizzazione di un intelligente e dosato equilibrio tra i poteri dello Stato.

Senza scomodarci a ricordare i piani della P2; senza sottovalutare che esiste più che mai la questione della governabilità, la quale mai deve essere considerata in maniera disgiunta dalla rappresentatività; senza dimenticare che le condizioni del Paese richiedono una guida, se non altro precisa e definita in grado di farci assumere quella postura che noi italiani cerchiamo di non accollarci da anni, non possiamo certo continuare con quelle deviazioni istituzionali e politiche che, lentamente, ma con continuità, hanno portato il Paese nelle più gravi condizioni critiche possibili, paragonabili solamente a quelle dei due grandi dopoguerra del secolo scorso.

Ma questo giustifica ulteriori stravolgimenti delle regole che democraticamente ci siamo dati? E può essere cosa che viene decisa da una classe politica squalificata e, sostanzialmente, abbandonata da una gran parte dell’intera nazione, come conferma lo stabilizzarsi del corpo elettorale attivo attorno al suo solo 50%? Non so quanto possa essere considerato persino il legittimo il dubbio che la “politica creativa” serva solamente a perpetuare il pessimo esistente che abbiamo.

Siamo al terzo governo formato in Italia, dopo il 4 marzo 2018, senza alcuna consonanza con l’espressione spontanea degli elettori. Prima, il Governo Conte frutto dell’inatteso e innaturale connubio 5 Stelle e Lega, furiosamente dichiaratisi alternativi gli uni agli altri per anni. Poi, il Conte 2 nato sull’altrettanto inatteso e innaturale connubio 5 Stelle e Pd, anch’essi a lungo duramente avversari. Infine, quando era oramai evidente l’impossibilità che i partiti, mandati in Parlamento tre anni prima, esprimessero un esecutivo in grado di contrastare efficacemente la pandemia e di garantire l’adeguata gestione dei fondi europei, è giunto l’esecutivo guidato da Mario Draghi, il quale costituisce la conferma di come quello che può essere definito solamente un equilibrio, trovato esclusivamente sulla base di uno stato di necessità, riveli l’esistenza di una crisi molto, ma molto più profonda.

E’ a questo che si deve guardare. In una società evoluta, democraticamente fondata, non si può reagire a un male radicato pensando a pateracchi istituzionali, improvvisati e destinati a mettere la parola fine sull’assetto democratico repubblicano cui gli italiani hanno dimostrato di credere, nonostante tutto. Lo hanno confermato abbastanza recentemente il “no” espresso alla riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi e quel “no” continuo che esce dalle urne quale voce maggioritaria del Paese. Che il sistema, non fatto solamente dai partiti, quel “no” corra a dimenticarlo subitaneamente non rimuove il male oscuro che sta tarlando la nostra democrazia.

Non abbiamo bisogno di costruire “de facto” alcunché. Già troppo è stato fatto …”de facto”. Soprattutto, non abbiamo bisogno che ci pensi a farlo una classe dirigente nel suo complesso contestata la quale deve, invece, avere il coraggio di avviare una fase di rigenerazione democratica.

La trasformazione non potrà che avvenire partendo dall’introduzione di una legge elettorale proporzionale in grado di ridare al Paese la possibilità di ricostruire un tessuto politico – istituzionale nuovo. Portando in Parlamento voci sociali, culturali ed economiche nuove, assieme a quelle represse da un bipolarismo che pensa di poter continuare a sopravvivere grazie a della ingegneria istituzionale astratta e senza alcuna verifica della reale volontà popolare.

Non credo che Mario Draghi  non veda i rischi che comporta un’ipotesi del genere. Per la sua immagine e per gli equilibri su cui si basa, oggi, la maggioranza parlamentare che sorregge il suo governo. Ha troppo fiuto anche solo per assaggiare quella che potrebbe rivelarsi una polpetta avvelenata.

Così come la “finanza creativa” ha creato le basi dell’attuale sconquasso economico e sociale del mondo, non vorrei che un eccesso di “creatività” relativa al ruolo e alla figura di Mario Draghi finisca per comprometterne l’impegno cui è stato chiamato in Italia, con tanta intelligenza e nel momento giusto, dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Come Maurizio Cotta scriveva tre giorni fa su questo foglio ( CLICCA QUI ), infatti, il valore di Draghi si gioca sulla sua capacità di portare i partiti ad accettare una logica di trasformazione, loro e dell’intero Paese. Trasformazione, ma non obnubilazione o mortificazione. Soprattutto, a guarentigia di tutti, è necessario preservare un sistema di equilibri costituzionali  da riveder, al contrario delle attese di qualcuno, tornare ad essere vivo, inclusivo e partecipato come è stato sempre nei momenti in cui l’Italia ha saputo riprendere il percorso lungo la via smarrita.

Giancarlo Infante

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