I ragazzi vanno capiti, soprattutto quelli della scuola secondaria superiore, che non vedono l’ora di tornare in una classe fisica, dopo mesi di classi virtuali, inchiodati al loro computer, magari conteso dai genitori in smartworking. Hanno bisogno di fare gruppo, interagire, condividere, contendere, misurarsi. Per loro è quasi un bisogno esistenziale. È il tempo della scoperta, che spesso si deve agli incontri: con un compagno/a di classe, con un insegnante, con una materia, con un sentimento.

È bene dunque che si faccia il possibile per farli tornare in una classe reale, con le necessarie precauzioni, quelle che si dovevano prendere da mesi (dai trasporti ai tamponi al tracciamento). È male invece, semplicemente perché è un errore, porre il ritorno alla didattica in presenza in alternativa alla DaD/DDI. La vera contrapposizione è tra la didattica solo trasmissiva e autoreferenziale (sia in presenza, sia – peggio – a distanza) e la didattica coinvolgente, che stimola la curiosità del discente, ne alimenta la sete di conoscenza, la nutre con attività cooperative di ricerca, creatività, competizione positiva (come nello sport e nel gioco, soprattutto in quelli di squadra). In questo le tecnologie, con le immense risorse della rete, aggiungono opportunità per l’educatore fino a pochi anni fa inimmaginabili, legate alle multiformi applicazioni dell’intelligenza artificiale, dalla realtà virtuale e aumentata ai multiplayer serious games. Tecnologie utilizzabili sia in presenza sia online: la vera questione è scoprirle e saperle maneggiare con le indispensabili competenze pedagogiche degli insegnanti; non invece fare battaglie di retroguardia rifiutando di avvalersi di nuovi approcci e strumenti, solo perché non si conoscono e non si prende la decisione di formarsi per avvalersene.

Didattica in presenza e DDI, declinate nella logica dell’apprendimento coinvolgente, possono essere complementari, e devono essere esperite fin da ora congiuntamente se non si vuole che tra pochi anni la scuola, rimasta ancorata alla sola didattica trasmissiva (in presenza, o anche a distanza), sia spazzata via da altre forme di acculturazione di massa, dall’homeschooling alle microschools (piccoli gruppi di apprendimento di livello misto, che si possono organizzare anche presso case private, con piani di studio fortemente personalizzati).

Sbagliano pertanto quegli adulti – genitori e anche qualche insegnante, per non dire di certi accademici – che criminalizzano la DaD alla ricerca della scuola perduta: quella che loro hanno conosciuto e che continuamente propongono come modello in un proustiano echeggiamento del loro vissuto. Che è però, appunto, il loro. Quello

dei loro figli si chiama futuro.

Pubblicato su Tuttoscuola

 

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