Il referendum sul taglio del numero dei parlamentari è un classico prodotto della politica dei nostri giorni. Rivela l’insistenza nel voler prendere una parte per il tutto e nell’accentuare gli aspetti viscerali a scapito di un ragionamento che dovrebbe, altrimenti, essere sistematico ed organico e, quindi, portare ad investire davvero il cuore dei problemi.

Invece di affrontare il più generale “male oscuro” della democrazia moderna che riguarda anche noi italiani, si finisce per correre di volta in volta dietro, come dice Galbiati ( CLICCA QUI ), ad alcune “idiozie” dalle quali ci si aspetta chissà quale soluzione taumaturgica. Diventa ovvio il parlare di demagogia e di populismo, ma è altrettanto sbagliato restare sulla soglia della critica verso ciò che tanto mina il processo democratico ed evitare d’indagare sui motivi per cui tanto diffuso diviene un stato d’animo qual è quello della cosiddetta antipolitica.

Non basta denunciare un sintomo. Ci devono interessare le cause profonde di un disagio. Anzi di più disagi che portano a disinteressarsi della politica, a seguirla in modo superficiale e ad andare dietro al capopopolo di turno.

Veniamo da 25 anni di divisioni portate alle estreme conseguenze in un Paese che, al contrario, necessita di uno sforzo di convergenza attorno a delle linee strategiche in grado di risolvere le maggiori criticità che sono sotto gli occhi di tutti. I risultati sono quelli dell’esautoramento di fatto del Parlamento e della conseguente gracilità delle basi dei governi che si sono succeduti negli ultimi nove anni.

Funzionamento generale del sistema politico e delle istituzioni, crisi di credibilità dell’apparato dello Stato e delle autonomie locali, economia, lavoro, famiglia, processi educativi,  infrastrutture, innovazione e sviluppo tecnologico. Solo alcuni dei problemi che l’Italia continua a non affrontare in maniera radicale, ma con interventi spezzettati, episodici e, troppe volte, sulla scia di ondate di ipersensibilità orientate da interessi parziali in grado d’intervenire sulla politica e sul collegato sistema della comunicazione. Diffusa è l’impressione che sia tutto da rifare.

Il problemi che caratterizzano il nostro assetto democratico e che condizionano la nostra attività legislativa e di governo non si riducono certamente alla riduzione dell’attuale numero dei parlamentari. Questo non è un tabù come ci ha detto il Centro studi Livatino ( CLICCA QUI ) e non discende neppure da un iniziale dettato costituzionale.

Il punto vero è che, come ricorda Galbiati, la nostra Politica, cioè il sistema dei partiti, ciò che è connaturato ad una repubblica parlamentare occidentale, è finito soffocato dagli altri poteri. Siano essi quelli ufficialmente riconosciuti dalla Carta costituzionale o i tanti altri esistenti di fatto. In taluni casi, quest’ultimi si rivelano persino più forti e pervicaci e finiscono per imporre la loro volontà soverchiando quella del popolo che, solo ufficialmente, resta sovrano.

Non c’è dubbio alcuno sul fatto che i fenomeni più rilevanti degli ultimi anni della politica italiana siano stati quelli della nascita dei 5 Stelle e l’esplosione della Lega, soprattutto dopo l’avvento alla sua guida di Matteo Salvini.

A ben guardare, queste due entità hanno in comune alcuni elementi. Meglio sarebbe parlare di quegl’antefatti culturali, sociali e antropologici che giustificano l’ “antipolitica” e che ne pervade i seguaci e gli elettori leghisti e dei 5 Stelle. Per questo, due anni fa,  il cosiddetto “populismo” dei 5 Stelle, basato su di una critica estrema al sistema dei partiti, non faticò a sposarsi con il “sovranismo” di Salvini. Molto simile, del resto, era allora il giudizio sull’Europa da troppo tempo legata alla linea dell’austerità e della severità nei confronti dei paesi con più alto debito pubblico.

L’antipolitica, all’insegna dei famosi detti popolari “piove, governo ladro!”, “sono tutti uguali”, è un elemento che si muove nel profondo degli italiani sin dalla nascita dello stato nazionale. Al Sud, ma anche più sopra, fino agli attuali Abruzzo e reatino, il brigantaggio costituì la prima forma d’espressione di un malessere sociale ed economico di cui era chiara l’impossibilità, ma anche la volontà, da parte dei gruppi dirigenti di fornire un’adeguata risposta. Avrebbe richiesto l’avvio di un processo democratico dalla forte impronta popolare. Molto dell’oggi lo ritroviamo in quel passato. Successivamente, non mancarono esplosioni di populismo come quelli rappresentati, tra gli altri, da “Uomo qualunque” di Giannini e dalla rivolta di Reggio Calabria del 1970 1971.

Si tratta di un atteggiamento, in effetti, che ha sempre  covato sotto la cenere, soprattutto nel Mezzogiorno e nelle isole perché derivante dalla sfiducia, se non dall’ostilità vissute nei confronti dell’apparato pubblico. Ma evasioni ed elusioni fiscali, atteggiamenti  anti statali e anarcoidi non sono mai state cose del tutto sconosciute neppure nelle terre del Nord.

Lo sviluppo economico degli anni ’50 e ‘60, la complessiva tenuta delle istituzioni e il sistema dei partiti popolari avevano consentito il contenimento di un qualcosa destinato invece ad esplodere quando, con la fine della Prima repubblica e l’evidente precoce fallimento della Seconda, ci si sarebbe trovati di fronte ad un progressivo allontanamento dalle urne della gran parte degli elettori e, poi, alla nascita e allo sviluppo di formazioni davvero alternative al sistema politico. In qualche modo, dopo il ’92, il nostro “organismo” pubblico ha finito per favorire l’esplosione di anticorpi non frenati da alcun controllo. Del resto, è andata emergendo sempre più l’incapacità dei partiti tradizionali di risolvere sia la questione della governabilità, sia quella della rappresentanza. I sistemi elettorali  hanno aggravato il “male oscuro” di cui sopra, perché forzatamente introdotti in maniera verticistica e a colpi di momentanee maggioranze parlamentari, vista l’oggettiva impossibilità di avviare una fase ricostituente.

La constatazione che non esisteva più il cosiddetto “ascensore sociale”; un’ulteriore radicalizzazione degli squilibri tra nord e sud, quest’ultimo ridotto a convivere con uno dei livelli più alto di disoccupazione giovanile in Europa e con un’invecchiata popolazione costretta in molte zone ad andare avanti  solo grazie alle pensioni sociali e a quelle d’invalidità; la competizione internazionale divenuta sempre più dura a causa della globalizzazione e dei suoi effetti sul sistema produttivo e sul mercato del lavoro, hanno fatto il resto due anni fa a favore dei 5 Stelle e della Lega.

Non è un caso che la Lega, al Nord, si sia fatta aggregatrice pure di un fenomeno qualunquista alimentato in un mondo di piccola imprenditoria diffusa intenzionata a vincere la competizione sui mercati  grazie alla delocalizzazione e facendosi forte della capacità di costituire la principale fornitrice dell’industria tedesca. Nella situazione attuale, allora, appare cruciale agire soprattutto pensando al costo del lavoro e chiedendo una riduzione del carico fiscale. Anche le pulsioni contro le norme europee, in particolare contro l’Euro, finiscono per far parte del tentativo di rispondere alle ripetute crisi economico – finanziarie degli ultimi decenni guardando quasi esclusivamente agli interessi delle regioni settentrionali. Cosa che non dev’essere dimenticata solamente perché Salvini cerca di trasformare la sua organizzazione in un partito nazionale di destra.

Così il “sovranismo” della Lega si alimenta, e alimenta, il “populismo” perché non vede altra strada se non quella di cavalcare l’irrazionale e inagibile idea di  uscire dalla moneta unica europea e tornare alla lira. Cosa che, in realtà, rivela l’illusione di poter difendere il tessuto produttivo con il rifiuto di pagare il debito pubblico e, se necessario, rimetterci in condizione di andare avanti a colpi di svalutazioni, così come accadeva frequentemente negli anni ’70.

Al Sud, il grande successo registrato dai 5 Stelle il 4 marzo 2018 sta a significare che il “populismo” ha fatto breccia tra gli elettori di tutte le regioni meridionali che, anche dalla cosiddetta Seconda repubblica, non hanno visto giungere le soluzioni dei problemi storici che li riguardano. A partire dalla disoccupazione, in generale, e da quella giovanile, in particolare, e la riproposizione, dunque, del fenomeno dell’emigrazione e della desertificazione demografica. Il reddito di cittadinanza si è rivelata, comunque, misura del tutto inadeguata.

Si parla dei costi della politica. Meglio sarebbe riferirsi al costo di un apparato pubblico più complessivo che pesa enormemente sui nostri conti pubblici, senza che di esso vengano eliminati sprechi, ritardi, disfunzioni e inefficienze. Stato e regioni, anche quelle governate da uomini della Lega, ma anche un immenso reticolo di società partecipate, costano probabilmente molto più di quel che danno e il risparmio derivante dal taglio del numero dei parlamentari è davvero poca cosa rispetto al carico gravante sulle casse pubbliche a causa di un sistema di rappresentanza e di governo che dev’essere alleggerito.

La riduzione dei costi delle assemblee elettive assomiglia un po’ al ricorrente taglio delle auto blu dei ministeri di cui periodicamente si sente parlare. Davvero poca cosa se, contemporaneamente, non vengono modificate le voci che compongono la spesa pubblica e non ne viene modificata la direzione verso il sostegno a politiche di sostegno allo sviluppo.

E’ evidente che fino a quando sanità, infrastrutture, scuola e investimenti in ricerca scientifica e tecnologia sono considerati costi e non vengono concepite come aree destinate a far parte di un nuovo modello economico resteremo ad accapigliarci su questioni che non sono davvero centrali e non riusciremo mai a trovare quelle risorse che ci possano mettere in grado di riavvicinarci ai paesi più avanzati, così come accadde cinque decenni or sono grazie a quella stagione avviata da una classe dirigente fatta da veri “illuminati”  che chiamiamo boom economico.

Giancarlo Infante

 

Immagine utilizzata: Pixabay

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