Ricorre il 9 maggio – il settantesimo anniversario della Dichiarazione con cui Robert Schuman, Ministro degli Esteri francese, propose la creazione della CECA (Comunita’ Europea del Carbone e dell’ Acciaio), la prima istituzione europea sovranazionale. Nel 1985, al vertice di Milano, i capi di Stato e di governo, decisero di assumere e festeggiare il 9 maggio come “Giornata dell’Europa” (che per noi italiani coincide, purtroppo, con il giorno anniversario del sacrificio del Presidente Moro).
La giornata in cui prende avvio quel percorso che, nel suo recente articolo, Giancarlo Infante, invitandoci giustamente a non vederne solo le spine, definisce come cammino di gioia e di dolori ( CLICCA QUI ). Del resto, lo stesso Schuman afferma, appunto nella sua Dichiarazione: “L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”.
Era, dunque, avvertita, fin da quei primi passi, la difficoltà di un’impresa necessariamente progressiva, destinata a sviluppare via via livelli funzionali di integrazione più avanzata sulla scorta del buon esito dei passaggi precedenti.
Insomma, si trattava di mantenere fermo l’obiettivo dell’ unità politica, con l’intera carica della sua forza ideale, e, nel contempo, calibrare il passo.
Certo, poi le cose, per troppi aspetti, sono andate diversamente o almeno così pare a noi che, osservando tale processo dall’interno, nella sua dimensione orizzontale, fatichiamo a cogliere quale sia effettivamente il punto cui è giunto il nostro cammino, per lo meno non lo possiamo capire con la sguardo più penetrante con cui i nostri giorni verranno giudicati retrospettivamente dalla generazione fortunata che condurrà in porto la lunga navigazione.
A noi spetta il compito di non demordere.
L’Europa compie settant’anni ed, in fondo, per quanto siamo sollecitati dall’accelerazione che la storia sembra aver impresso al suo corso, si tratta, forse, di un’età ancora adolescenziale, soprattutto se la rapportiamo ad oltre duemila anni di sviluppo di una civiltà di fatto comune, ma che si è pur espressa in una successione drammatica di conflitti.
Una storia straordinariamente ricca, ma altrettanto dura, difficile da portare alla sintesi di un sentimento comune.
Una storia che è, ad un tempo, motore, freno e metronomo che scandisce il ritmo e le attese del processo di unificazione del vecchio continente. Senza dimenticare le ferite più recenti del cosiddetto “secolo breve” che ha visto in rapida successione – o addirittura senza soluzione di continuità – due guerre mondiali, combattute sul suo suolo, nel breve arco dei trent’anni che decorrono dal ’15 al ‘45, letteralmente insanguinare l’intero continente, nella forma di “guerre civili”, ad un tempo dell’Europa come tale ed intestine ai singoli Paesi.
Dovremmo chiederci se settant’anni di pace ininterrotta, assicurata anzitutto dagli uomini che fondarono il processo di unificazione del continente, siano stati sufficienti a rasserenare compiutamente l’inconscio collettivo di popoli che si sono aspramente combattuti. Infatti, si riparte da qui, da tre uomini di pace – De Gasperi, Adenaurr, Schuman – ciascuno dei quali è impegnato, anzitutto, a riscattare, sia pure secondo diverse declinazioni, il proprio Paese dal baratro morale, prima ancora che dalla sconfitta bellica.
“La pace mondiale – questo l’incipit della Dichiarazione di Schuman – non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano”. Se ci riferissimo a “carbone ed acciaio” secondo la declinazione mercantile oggi prevalente, penseremmo ad un argomento di valenza economica, qualcosa che ha a che vedere con le politiche industriali. In effetti, Schuman intende carbone ed acciaio come energia e materia prima dirette alla produzione di cannoni ed altro materiale bellico.
Condividerne il controllo significa disarmare la bellicosità – in modo particolare, la millenaria contesa tra Francia e Germania – che ha rischiato di distruggere l’Europa e ne ha gravemente compromesso il ruolo sullo scacchiere internazionale. La CECA, dunque, come operazione di pace. “La fusione delle produzioni di carbone e di acciaio……cambierà il destino di queste regioni che per lungo tempo si sono dedicate alla fabbricazione di strumenti bellici di cui più costantemente sono state le vittime”.
La Pace: dunque un obiettivo di cui l’Europa cerca di farsi carico ben al di là dei suoi confini. E da qui si evince un ammonimento che vale anche oggi: l’Europa è sé stessa se trascende se stessa, se anziché rattrappirsi attorno ai suoi interessi particolari, va “oltre” e mantiene alto il profilo ideale del suo compio planetario. Del resto, questi – appunto ideali e culturali, più che geografici – sono i suoi confini.
Fisicamente non è che il promontorio occidentale estremo dell’ immensa piattaforma continentale euro-asiatica ed ha confini territoriali incerti che qualcuno spinge fino agli Urali ed altri restringono molto. La sua vera identità è la missione ideale che le compete come erede della civiltà greco-romana e del cristianesimo, su cui si sono innestati gli apporti culturali della sua intera storia che le hanno conferito una straordinaria ricchezza plurale.
Domenico Galbiati

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