La ricorrenza di quel drammatico 9 maggio di 42 anni fa, mi offre lo spunto per una breve riflessione sull’attualità del pensiero di Aldo Moro in un contesto politico, sociale ed economico profondamente cambiato. La sua azione politica è legata a stagioni lontane, ma resta valido il suo stile di fare politica. Quello stile fatto di dialogo, apertura all’altro, rifiuto della logica della forza, ma soprattutto attenzione alle fasce più deboli. Pertanto la politica non è la conquista del potere, ma gestione del potere come strumento per allargare il benessere a settori sempre più ampi della società, soprattutto a chi è escluso dal quel benessere. Come diceva Herny Ford «non è vero sviluppo se non è per tutti”. Avendo, dunque, come obiettivo “la costruzione della città dell’uomo a misura di uomo” nella bella espressione di Giuseppe Lazzati.

Come è possibile perseguire quell’obiettivo? Oggi la democrazia è malata perché la società è malata. La diagnosi di questo mondo malato, comprendendo sia la democrazia che la società, è espressa in maniera chiara e profetica nella “Laudato si’” di Papa Francesco, datata 2015. Quindi sono mali ben anteriori al Coronavirus. Anzi c’è da auspicare che il Coronavirus aiuti ad aprire gli occhi su un mondo malato, perché appare certo che mentre l’emergenza sanitaria rallenta, quella economico/sociale è pronta a deflagrare. La Caritas ha reso noto che dall’inizio della pandemia è più che raddoppiato il numero di persone che chiedono un pasto caldo o la spesa.

Questi “nuovi poveri” – riferisce l’associazione – all’inizio di marzo non avrebbero mai pensato di finire in povertà. Allora viene legittima la domanda? Per quanto la crisi sia stata improvvisa e dura, come è possibile che in soli due mesi una famiglia passi alla condizione di povertà? Questo significa che qualcosa non funzionava prima, qualcosa sfuggiva, forse non si è avuto il coraggio di riconoscere che quel sedicente benessere altro non era che una povertà mascherata. Cantava Vasco Rossi nel 1996 che «è tutto un equilibrio sopra la follia». Una follia riassunta in una foto apparsa su “L’Espresso” del 26 aprile. Il settimanale ha dedicato un servizio alla città eterna deserta. Compare anche un tratto della tangenziale interna a scorrimento veloce. Ogni giorno su quella strada transitano migliaia di vetture e camion: vedere oggi quella strada vuota è qualcosa di surreale. Ma su quella strada si affaccia un megacondominio che ogni giorno in tempi “normali” è avvolto da smog, rumore e caos.

Servirebbe Dante Alighieri per stilare un contrappasso efficace osservando che le famiglie di quel condomino (e purtroppo tante altre in tutta Italia in condizioni simili) hanno visto migliorare la loro qualità della vita in tempo di Coronavirus. Tanti altri esempi si potrebbero fare di un mondo malato ben prima della pandemia. Questa ha solo evidenziato ritardi, carenze e inefficienze da attribuirsi senza dubbio alla politica ma con la complicità della società civile. Ammonisce Papa Francesco: «Se i cittadini non controllano il potere politico nazionale, regionale e municipale neppure è possibile un contrasto dei danni ambientali, i quali sono intimamente connessi con il degrado umano ed etico». Ma quando e come i cittadini possono controllare il potere politico? Possono farlo ai diversi livelli istituzionali tutti i giorni quando sono organizzati in gruppi, associazioni, movimenti che danno vita a quel corpo vitale della società che don Luigi Sturzo chiamava popolarismo. Ma i cittadini non si limitano a controllare il potere politico: scelgono la classe politica alla quale affidare il potere. Ecco perché è fondamentale introdurre un sistema elettorale che dia potere al cittadino/elettore e che la volontà popolare non sia trasfigurata. Quindi superando l’attuale sistema elettorale, come ha ben spiegato qualche giorno fa Domenico Galbiati, «per restituire finalmente l’Italia agli italiani, anziché alle camarille di palazzo del maggioritario nelle sue varie declinazioni». Ma cambiare il sistema elettorale deve essere soltanto la prima pietra per rivedere l’organizzazione istituzionale dello Stato. Anche in queste settimane di drammatica emergenza sanitaria, è emersa in tutta la sua gravità la farraginosità e l’inefficienza di una burocrazia che sembra operare in un mondo più virtuale di quello provocato dal Covid-19. Al punto da oltrepassare spesso il confine dell’assurdità: basti pensare quanti modelli di autocertificazione sono stati sfornati in poche settimane. Ed è il problema più banale.

Qualcuno potrebbe obiettare che adesso bisogna rimettere in moto l’economia, più che pensare ad altre cose. Rimettere in moto l’economia è senza dubbio la priorità assoluta di queste settimane. Ma oltre a rimettere in moto l’economia bisogna anche indirizzarla su binari giusti in modo che in poco tempo non diventi una locomotiva impazzita. Tuttavia l’economia (e tutto il resto) va messa in moto non per tornare alla “normalità” precedente, perché quello precedente era un mondo malato. Pertanto chi ha dirette responsabilità istituzionali e politiche deve dare il massimo di energie, impegno e idee per rimettere in moto il Paese. Ma chi non ha questi incarichi deve dedicarsi con altrettanto impegno e passione a pensare a un nuovo modello di Stato che sia effettivamente in sinergia con la società civile, in particolare con quel terzo settore che rappresenta una straordinaria ricchezza che tutto il mondo ci invidia. Stato e società civile devono procedere insieme sui binari di quelle «convergenze parallele» indicate da Aldo Moro: restare distinti, ma non lontani; operare insieme ma senza sovrapporsi; intersecarsi ma senza annullarsi. Stato e società civile devono sostenersi a vicenda per realizzare una “democrazia più compiuta”. Ma per avviare un percorso riformatore serve una classe politica credibile e autorevole. La lezione di Moro si è interrotta 42 anni fa, ma il suo insegnamento è ancora valido oggi: anno 2020, anno del Coronavirus.

Luigi Ingegneri

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