Anche il Senato ha approvato la Legge di Bilancio per il 2021. Sul filo di lana, ma questa potrebbe non essere una novità visto che anche il Conte I se la vide approvare nel 2018 il 30 di dicembre e lo stesso accade per il bilancio 2005, licenziato dal Parlamento il 29 dicembre, mentre era in carica il governo Berlusconi II.

Per riuscirci ieri, però, con un Senato costretto a vedersi preclusa la possibilità di discutere eventuali emendamenti, il Governo Conte II ha cancellato ogni possibilità di esame della manovra, avvalendosi della richiesta del voto di fiducia. In sostanza, i senatori si sono dovuti limitare a prendere per buono il testo uscito dalla Camera e ad esprimere uno scontato sì sulla base dei rapporti di forza esistenti. A dispetto delle turbolenze mostrate reiteratamente sulle pagine dei giornali dalla maggioranza che sorregge l’attuale esecutivo, non sono state smentite le attese.

Felicissimi, ovviamente, di non trovarci con l’inedita necessità di andare avanti con un esercizio provvisorio che non avrebbe fatto bene a nessuno. Meno che mai a chi in Europa è quotidianamente costretto a spiegare e ad attutire quei sensi d’incertezza e di precarietà che il nostro Paese mostra sovente e che connotano da troppo tempo l’azione del governo italiano.

Siamo da circa un anno in una situazione d’emergenza a causa del Coronavirus che, però, come abbiamo più volte sostenuto, e in questo non siamo sicuramente solitari grilli parlanti o mosche cocchiere, ha fatto solo emergere in maniera più netta e drammatica le condizioni complessive del Paese, i ritardi della Pubblica amministrazione e la necessità che s’intervenga al più presto per modificare, possibilmente in maniera positiva e costruttiva, il sistema istituzionale e politico.

Nonostante continuino a levarsi sempre più alte le voci accorate di costituzionalisti, tra queste si fa ben sentire quella di Sabino Cassese, recentemente giunto a parlare senza mezzi termini di “anarchia di stato” ( CLICCA QUI ), Giuseppe Conte continua a procedere a colpi di Dpcm. Nel fare ciò, sulla base di una situazione straordinaria, provvedimenti di natura amministrativa finiscono per condizionare pesantemente l’esercizio di alcune libertà garantite dalla nostra Costituzione, dalla libertà di riunione, a quella di movimento, a quella  religiosa. Altre violazioni ancora potrebbero essere ricordate, ma non è il caso di farla troppo lunga tanto il tutto è evidente.

La straordinarietà ci ha portato ieri a vedere, sia pure nel rispetto formale delle norme, ad un ulteriore sostanziale limitazione dei poteri dei parlamentari di svolgere il primario compito di legislatori:  un commentatore del Sole-24 Ore, che si cela sotto lo pseudonimo di “Montesquieu”, ha opportunamente parlato, con riferimento al tour de force legislativo di queste ore, di “strage di prerogative, competenze e diritti degli organismi parlamentari, dei singoli parlamentari, degli elettori”, proponendo – al posto delle lambiccate proposte di riforma costituzionale del PD – di tornare semplicemente al rispetto dell’art. 72 della Costituzione sul procedimento legislativo: “torniamo all’antico e sarà un progresso!”, per dirla con Giuseppe Verdi.

Recentemente siamo intervenuti su un altra specie di oggettivo “impoverimento” del ruolo del Parlamento discendente dalla preminenza di responsabilità attribuita alla Conferenza Stato-regioni, a sua volta costituito sulla base di un semplice Dpcm del 1983 ( CLICCA QUI ). Essa è diventata progressivamente lo strumento attraverso cui il Governo e i  vertici dei partiti, da cui dipendono anche quelli delle Regioni, distorcono oggettivamente la funzione delle due Camere. Non è un caso che si comincia a riflettere oggi, tra i costituzionalisti, su quella che è oramai apertamente definita la “deparlamentarizzazione” della nostra forma di governo.

Da qui lo svuotamento della rappresentanza politica del Paese, tante volte denunciata da queste colonne, il prevalere di tendenze pericolosamente autoritarie a livello centrale e regionale, l’affermazione di scelte– dietro la retorica moralista che infarcisce tante scelte di governo – determinate da apparati burocratici politicamente irresponsabili (come le famigerate task force) e da grandi interessi privati, il cui prepotere è agevolato dal vuoto pneumatico creato nelle aule parlamentari, sistematicamente espropriate delle loro prerogative costituzionali.

Esistono, dunque, due straordinarietà. Una è quella particolarmente incalzante, oggi, per il diffondersi della pandemia; l’altra è di più vecchia data, riguarda l’assetto istituzionale solo formalmente ancora basato sulla dialettica tra le forze politiche presenti in Parlamento, cosa cui ovviamente noi cittadini elettori guardiamo con sollecitudine e preoccupazione, ma in realtà traslato su altri livelli resi di fatto competenti a prendere decisioni di grande rilevanza, poi portate in sede parlamentare solo per ricevere la indispensabile ratifica formale.

La costituzione dell’antica Roma repubblicana aveva previsto la figura del dictator conferendogli il summum imperium per un periodo ben limitato: di solito si trattava di sei mesi nel corso dei quali si superava la collegialità prevista nel corso della stagione consolare repubblicana. Nella tradizione giuridica romana, la pienezza dei poteri civili e militari conferiti al dittatore trovava quindi il suo limite fondamentale nella sua intrinseca temporaneità.

La conclusione di questo ragionamento è dunque che, se non vogliamo destrutturare ulteriormente il nostro assetto istituzionale, duramente segnato prima dall’insorgenza populista e poi dalla crisi pandemica, è necessario “ricostituzionalizzare” le dinamiche istituzionali, a partire dalla piena restituzione al Parlamento delle proprie funzioni e responsabilità e dal recupero di una normazione dello “stato di eccezione” pienamente conforme al dettato costituzionale.

Giancarlo Infante

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