Petrolio a meno 37 dollari al barile, un qualcosa destinato a finire nei libri di storia. Un unicum che, per essere messo in prospettiva, necessita di un grafico come questo, capace di esprimere il concetto meglio di mille parole.

Un dato è acclarato: il mondo annega nel greggio, a fronte di una corsa alla produzione senza precedenti fra i principali players globali e una domanda di energia che, al contrario, sta ulteriormente rallentando a causa del lockdown da Covid-19. Ma questa dinamica non è certamente nuova. Da almeno un anno e mezzo, le quotazioni dell’oro nero viaggiano su livelli minimi, tanto che le ultime quattro riunioni della cosiddetta Opec+, il cartello dei produttori più Russia e Stati Uniti, sono state interamente dedicate a un unico scopo: il raggiungimento di un accordo per un taglio della produzione che consentisse al prezzo del barile di rifiatare verso l’alto, almeno in area accettabile per i break-evens fiscali di molti Stati.

Ma davvero, al di là del risvolto mediatico-emotivo di quella discesa in negativo che viene tradotta come la volontà dei produttori di pagare chi si sobbarchi l’onere di farsi recapitare greggio, quanto accaduto rappresenta una sorta di squillo di tromba prima dell’armageddon recessivo finale? In realtà, si tratta sostanzialmente di una questione tecnica.

Un contratto fisico come appunto il Nymex Wti presuppone al suo interno un punto di consegna del petrolio che si va a trattare, nel caso specifico il deposito di Cushing, in Oklahoma e una data di consegna, nel caso specifico il prossimo mese di maggio. Quindi, chi detiene il contratto, quando si avvicina la chiusura della finestra di trading, deve preparasi a ricevere quanto acquistato attraverso il future. Questo non accade quasi mai, poiché quel mercato è popolato per la gran parte non da linee aeree che necessitano di carburante ma di speculatori. Ovvero, persone che giocano con il cosidetto paper oil per guadagnare sui differenziali di prezzo ma certamente non hanno interesse reale a ricevere barili. Quindi, quando la data di scadenza si approssima, solitamente si rivende il contratto sulla scadenza
successiva, operando il cosiddetto roll, sperando di averci guadagnato.

Nel caso del contratto che ha monopolizzato tutte le news con il suo tracollo sotto zero, la data di scadenza era quella odierna. Cosa è accaduto, quindi? ( … ).  Dalla fine di febbraio ad oggi, infatti, gli stock di Wti presso il deposito
di Cushing sono cresciuti del 48%, arrivando a 55 milioni di barili, a fronte di una capienza totale dell’hub di 76 milioni di barili. Insomma, il tracollo e la velocità con cui si concretizzato è frutto soltanto della tardiva presa d’atto da parte dei traders dell’impossibilità di prenotare spazio di stoccaggio a Cushing, qualsiasi fosse il prezzo che si era pronti a pagare.

Al netto di una situazione tale, va da sé che quei contratti in scadenza con vincolo di consegna divenivano automaticamente come la kriptonite per Superman, volendo rivenderli anche a fortissimo sconto. Et voilà, il classico avvitamento nella spirale autoalimentante, resa possibile dal combinato congiunto di data del rolling e scarsezza di liquidità. Ma mentre il barile precipitava in negativo di 37 dollari sulla scadenza di maggio, i futures Nymex di giugno viaggiavano contemporaneamente in area 21,13 dollari al barile. Insomma, tutta questione di spazio. Almeno nell’immediato.

Perché  se nei prossimi giorni dovesse sostanziarsi un netto calo sui futures relativi a giugno – già prezzato dai veterani del mercato in un 15% circa -, allora significherebbe davvero che lo stress fisico continuerebbe a
riverberarsi sulle quotazioni di mercato del barile, obbligando a blocchi della produzione nel mese di maggio superiori a quelli già annunciati, ad esempio nel settore shale statunitense.

Un’ipotesi che, però, l‘amministrazione Usa ha già messo in conto. Tanto che, come riportato pochi giorni fa da Bloomberg, il governo statunitense starebbe infatti già pensando all’opzione estrema di pagare i produttori, affinché smettano di trivellare ed evitino così di aumentare gli stock di greggio. Un sussidio alla non produzione, insomma.

Qualcuno, poi, a fronte di una situazione sì grave ma, almeno per ora, meramente infastrutturale (costruire nuovi hub costa meno di una resa nella guerra per le risorse energetiche globali), ritiene che l’impatto emotivo dell’accaduto potrebbe suonare da sveglia per tutte le parti in causa nella disputa per le quote di mercato (Usa ma anche Russia e Arabia Saudita), affinché si arrivi a un armistizio reale. E non ad accordi-farsa, disattesi ad esempio da Ryad nel momento stesso della loro sigla, cui seguì infatti la decisione unilaterale di applicare ulteriori sconti record all’export petrolifero verso gli altri Paesi del Golfo e l’Europa. Insomma, più che l’armageddon, potrebbe
paradossalmente trattarsi del campanello che annuncia l’arrivo di una bianca colomba della pace. Mossa strategica americana da shock and awe controllato? Tutt’altro che improbabile, stante appunto l’impasse registrata finora nei vertici ufficiali.

Il timore vero, a detta di molti, sta però altrove. Ovvero, il grado di resistenza reale dell’Arabia Saudita a una pressione che potrebbe durare ancora qualche mese. E non tanto perché la tenuta dei conti pubblici del Regno stia a cuore a molti, bensì perché le munifiche finanze del principe Bin Salman sono il vero e proprio polmone d’acciaio
cui è attaccato l’intero piano di investimento del Vision Fund 1 di Softbank, conglomerato finanziario nipponico sulla cui conquista del mondo ha scommesso mezza Wall Street. E che, non più tardi della scorsa settimana, ha annunciato perdite previsionali per 16,7 miliardi solo nel primo trimestre, a fronte dei 100 miliardi di dotazione del suo fondo flagship più altri 7,4 miliardi direttamente legati a  investimenti del proprio portfolio.

Forse anche per questo, oltre che per tutelare l’ultra-finanziarizzato, cartolarizzato e indebitato comparto
shale, a Washington si sfrutterà lo shock del petrolio che costa meno dell’acqua minerale per riportare tutti a più miti consigli. E a una tregua, almeno fino alla fine dell’emergenza Covid-19. Poi, si vedrà.

Tratto da un articolo di Mauro Bottarelli pubblicato su Businnes Insider

Immagine utilizzata: Pixabay

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