Il tema dell’impatto delle tecnologie sul lavoro, e delle politiche da mettere in atto per adeguare le risorse umane ai nuovi fabbisogni nel mercato del lavoro, sta assumendo un grande rilievo nel dibattito internazionale, tanto da essere ormai assimilato a quello ambientale per la valutazione della sostenibilità della crescita economica.

Nel merito si confrontano due tesi, entrambe convergenti nel sottolineare l’intensità delle trasformazioni indotte dal peso dell’intelligenza artificiale nelle organizzazioni del lavoro, ma che arrivano a conclusioni decisamente opposte sul versante delle conseguenze sulla qualità e la quantità dell’occupazione. Una, tesa a dimostrare che le innovazioni comporteranno l’esigenza di migliorare le competenze dei lavoratori, il loro coinvolgimento nelle decisioni aziendali, a rendere le prestazioni lavorative meno faticose, più creative e più compatibili con le scelte di vita. La seconda dà relativamente per scontato uno scenario per certi aspetti apocalittico, derivante da una progressiva sostituzione delle funzioni cognitive dei lavoratori da parte delle macchine intelligenti, destinata ad accrescere il numero dei lavoratori poco qualificati e con basse remunerazioni e a favorire aumenti di produttività destinati a ridurre la quantità dei lavoratori. 

Nella prima rappresentazione, le politiche del lavoro assumono il compito di migliorare il coinvolgimento dei lavoratori nell’ambito delle organizzazioni del lavoro meno gerarchiche e di aumentare a dismisura gli investimenti per migliorare le competenze e la sostenibilità delle transizioni lavorative. Nella seconda diventa dominante il tema della redistribuzione della produttività verso forme di reddito garantito in grado di garantire una soglia base di accesso ai consumi per tutti i cittadini.

Dettaglio non marginale: tutti gli indicatori relativi alla valutazione della qualità del nostro mercato del lavoro (tassi di occupazione, quota di occupati qualificati, di laureati, di investimenti formativi, di sottoutilizzo delle persone in età di lavoro, ecc.) sono peggiorati in modo significativo negli ultimi 10 anni nella comparazione con gli altri Paesi aderenti all’Ue.

L’obiettivo di rimediare gli squilibri territoriali, generazionali e di genere è diventato parte integrante del nuovo Pnrr, con l’introduzione di vincoli per l’utilizzo delle risorse destinate agli investimenti per la transizione ambientale e digitale. Nel frattempo le politiche per il lavoro, che dovrebbero accompagnare una trasmigrazione di personale che non ha precedenti verso le nuove attività, vanno in tutt’altra direzione: quella di conservare più a lungo possibile tutte le strutture esistenti, comprese quelle destinate a essere chiuse, generalizzando l’utilizzo delle casse integrazioni anche alle micro imprese, e in aggiunta alle indennità di disoccupazione, per mantenere in vita posti di lavoro inesistenti con iniezioni di risorse pubbliche e di contributi a carico delle imprese.

La spiegazione di questa scelta, destinata a distorcere il corretto funzionamento del mercato del lavoro, e a incentivare in via di fatto i comportamenti opportunisti rivolti a integrare i sussidi pubblici con prestazioni sommerse, l’ha offerta il ministro del Lavoro Orlando, affermando che la riforma degli ammortizzatori sociali, approvata dal Parlamento con la Legge di bilancio, è stata predisposta “alla luce delle esperienze maturate nel corso della emergenza Covid”. Potrebbe sembrare uno scherzo, dato che le casse in deroga erano giustificate da motivazioni extraeconomiche e dagli interventi amministrativi che disponevano la riduzione delle attività. Ma a quanto pare ogni pretesto è utile per assecondare una deriva parassitaria che non sembra trovare limiti. 

L’evidenza che le imprese fanno fatica ad assumere il personale anche per le mansioni che non richiedono particolari percorsi formativi e professionali, numericamente equivalenti ai due terzi del 38% dei fabbisogni dei profili di difficile reperimento, viene confermata dalla rilevazione Excelsior (Anpal-Unioncamere). Un dato preoccupante considerando i milioni di beneficiari dei sostegni al reddito in età di lavoro, e delle persone in cerca di lavoro. Ma che viene paradossalmente utilizzato come pretesto per sostenere la necessità di introdurre il salario minimo legale per rendere più appetibili le offerte di lavoro. Probabilmente a ragione veduta, dato che nel frattempo l’importo minimo mensile delle casse integrazioni è stato aumentato a 1.200 euro.

Queste scelte ci aiutano a comprendere quanto ci attende nell’immediato futuro nella gestione dei complicati meccanismi del mercato del lavoro italiano e la pretesa velleitaria di far funzionare le politiche attive del lavoro in un simile contesto. Con la teorizzazione del diritto al reddito separato dal lavoro e della spesa assistenziale a discapito della crescita economica e della partecipazione al mercato del lavoro, il livello dell’elaborazione della sinistra precipita al minimo storico. Che coincide purtroppo con la totale assenza di idee sulla materia da parte delle altre forze politiche, e dalla manifesta incapacità delle parti sociali di mettere in campo alternative credibili.

Natale Forlani

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