In occasione dell’anniversario dell’assalto al Congresso di Washington, gli Stati Uniti si sono presentati più che mai come paese diviso. E’ questo un termine che con sempre maggiore insistenza utilizzano gli analisti politici e i giornali americani, e non solo.

Il 6 gennaio del 2021 la cosa raggiunse solo il suo più alto diapason. Frutto  di una fermentazione che veniva da lontano e che, con la presidenza di Donald Trump, ha solo trovato un punto di condensazione più definito, anche sul piano politico parlamentare.

Joe Biden ha parlato ieri per ricordare quegli eventi che hanno portato anche alcuni esponenti repubblicani a dirsi preoccupati per la “fragilità” dimostrata dalla democrazia americana. In realtà, cosa che sembra sorprendere alcuni analisti, il Partito repubblicano, o almeno ciò che emergere dalla maggioranza delle elette e degli eletti tra le fila del GOP, il Grande Vecchio Partito, ad ogni livello, federale e dei singoli stati, resta ancora saldamente ancorata al sostegno di Donald Trump. Non è un caso se gli unici dieci parlamentari repubblicani che hanno nettamente preso le distanze da lui e, ovviamente, da quanto accaduto dodici mesi fa, si ritrovano oggi di fatto emarginati e costretti, quasi, al silenzio se non addirittura minacciati dai loro stessi elettori.

Certo, siamo solo ai primi passi delle inchieste avviate su quelle vicende che tanto hanno scosso la pubblica americana e mondiale. Già molti collaboratori diretti di Trump sono finiti nel mirino degli inquirenti i quali sono adesso impegnati in una battaglia allo spasimo per costringere l’ex Presidente a rendere pubblica tutta la documentazione, messaggi e trascrizioni di conversazioni, relativa alle ore cruciali della preparazione e dello svolgimento dell’assalto al Campidoglio.

Quello di Biden contro il suo predecessore è stato un atto d’accusa senza precedenti. Visto che mai un nuovo inquilino della Casa Bianca ha tanto criticato l’uscente, così come nessun ex si è mai lanciato in commenti estremi contro chi l’ha sostituito. Il Presidente è al di sopra di tutto ed è il Presidente di tutti. Questo è valso, però, fino a quando il germe della divisione non ha finito per mettere completamente in crisi anche questa figura retorica e questa immagine che, a ben guardare, hanno sempre costituito un punto di forza della democrazia americana.

Siamo arrivati a tanto perché la divisione tra gli americani è ben più profonda e non resta confinata nella sfera della politica e dello scontro tra partiti, cosa che del resto non è mai mancata nella storia statunitense. Anche perché il cosiddetto sistema dello “spoil system” significa che il cambio di direzione politica influisce su una miriade di posizioni federali, ma anche di quelle delle amministrazioni dei singoli stati e a livello dei municipi, dei tribunali, e così via.

La divisione tra gli americani è nelle cose a tantissimi livelli. Geografici, culturali, sociali, economici e, persino, esistenziali. Vanno oltre quelle che fino agli anni sessanta hanno dominato le cronache, cioè quelle relative ai bianchi e ai neri, oppure quelle che, per fasi cicliche, hanno riguardato altre etnie, prima, gli irlandesi e gli italiani e, poi, gli ispanici.

Gli americani non sono credono più nella cosiddetta società del “melting pot”, ma non c’è neppure una maggioranza netta che vuole la visione opposta dello “scontro di civiltà”. Si sono radicalizzate le posizioni che si rifanno a riferimenti religiosi e a differenti visioni antropologiche, come quella che riguarda l’aborto. Oggi guardiamo alla cartina degli Stati Uniti che in realtà presenta una sostanza totalmente  non omogenea: tra le coste, da un lato, e salvo l’eccezione di alcuni stati e di alcune grandi metropoli, il corpo centrale. Quasi come se si riproponesse una scelta da una realtà rurale ed una industriale. Un’alternativa oggi riproposta, comunque, dalle trasformazioni richieste da una transizione ecologica che significa milioni di posti di lavoro.

 

 

 

 

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