“Crisi”, secondo la sua corretta etimologia greca, non sta, come più comunemente si crede, per “rovina”
o “catastrofe”, bensì allude piuttosto ad un nuovo inizio.

Infatti, si tratta di un termine che, ad esempio nel linguaggio clinico, per quanto sia ambivalente, segnala soprattutto l’acme di una malattia e la svolta risolutiva che ne consegue ed avvia alla guarigione. Il nostro linguaggio di tutti i giorni è infarcito, per ogni dove, di richiami alle “crisi” e ciò indica l’inclinazione negativa, venata di timore e pessimismo con cui ci guardiamo attorno e saremmo sorpresi se ci dicessero che nelle pieghe di questa parola nascondiamo anche, pur senza esserne consapevoli, quella voglia di riscatto che, di per sé, suggerisce. Probabilmente, senza peccare di ingenuità, dovremmo applicare queste considerazioni anche alla crisi “afgana” di questi giorni, cercando di trarne in controluce – come suggerisce molto opportunamente Maurizio Cotta – degli insegnamenti da volgere in positivo, piuttosto che una sequela di rassegnate recriminazioni ( CLICCA QUI ).

Il che non toglie nulla al giudizio severo – politico, strategico e morale – che merita un’operazione condotta malamente, senza ponderazione, senza preventive intese tra i Paesi della coalizione, senza un adeguato retroterra diplomatico con le altre maggiori potenze e soprattutto senza la necessaria predisposizione preventiva di piani di evacuazione dei collaboratori afgani che rischiano seriamente la vita. Eppure non è detto che si possa così facilmente gettare la croce su Biden. Sarebbe ingeneroso e sbagliato.

Se non altro prematuro, per quanto, siccome la storia non si fa con i “ma” e con i “se”, non avremo mai il riscontro
oggettivo di come sarebbero andate le cose, insistendo ed inasprendo il regime di occupazione.
In fondo, va riconosciuto a Biden almeno di aver compiuto un’opera di realismo, smagando le ipocrisie, le ambiguità e l’ambivalenza che accompagnano la missione afgana dal suo primo avvio. Prendendo, altresì, atto come si tratti di un’impresa disperata, al limite dell’impossibile, esportare, manu militari, una sorta di democrazia “pret-a-porter”, in un Paese che, per quanto di antica civiltà e retto da una monarchia fino ai primi anni ‘70, non ha mai goduto di una “statualita’”, come la intendiamo noi ed è fondato su una struttura sociale ancora tribale, dominata da clan locali e regionali.

La democrazia è assai più che non una procedura che contempla tra i suoi riti anche una consultazione elettorale.
Esige una coscienza civile diffusa e riconosciuta da quell’intera comunità nazionale. Dopo vent’anni di una guerra insidiosa e strisciante, quale realistica alternativa era possibile perseguire, per gli Stati Uniti, senza cadere nel rischio di infilarsi in un nuovo Vietnam? Per di più in un Paese che sembra aver interiorizzato, più di quanto non appaia, sia pure in altre forme, il trumpiano “America first”.

Forzare oltre misura una pubblica opinione affaticata e stanca, che guarda con preoccupazione alle dinamiche interne della propria nazione, non rischierebbe forse di sollecitare e sospingere un sogno isolazionista che rappresenterebbe una tentazione effettivamente pericolosa per il complessivo equilibrio internazionale? Tutto ciò non giustifica la fretta brutale con cui il popolo afgano è stato abbandonato al suo destino, ma perlomeno inquadra gli eventi di questi giorni in una cornice che, in qualche misura, ne da’ conto, sia pure in maniera cruda.

E’ presto per dire se Biden sia un dilettante o piuttosto uno statista, se abbia il polso fermo necessario a governare la maggior potenza al mondo o se sia troppo condizionato dall’apparato militare e dai poteri economico-finanziari.
Quel che è certo è che più volte la Casa Bianca è stata abitata da dilettanti scambiati per statisti e, talvolta, da statisti presi per dilettanti.

Biden, se non altro, non è un “parvenu”, ma un politico, si potrebbe dire, di stampo europeo. Ha alle spalle una pluridecennale carriera parlamentare, radicata nella realtà locale di uno Stato, il Delaware,  che non è tra i più influenti dell’Unione e, conseguentemente, ad un tempo, esperto dell’ establishment politico di Washington, ma anche attento agli interessi della gente comune. Insomma, un politico da considerare affidabile, al di là della pessima performance di questi giorni.

Se non altro va mantenuto sospeso il giudizio, cercando di capire se Biden saprà adottare una visione realistica dello scenario internazionale, senza smarrire quella spinta ideale che è pur sempre parte dello spirito americano e della vocazione che avverte come sua.

Su questi temi la riflessione di INSIEME deve tornare, ad esempio per approfondire il ruolo dell’Europa nell’attuale frangente storico ed esaminare a fondo il ruolo della Cina e la competizione in atto con l’Impero Celeste.

Domenico Galbiati

About Author