Uno degli aspetti più condivisibili del “Manifesto Zamagni” è la piena consapevolezza che viviamo un tempo di crisi così profonda – sociale, economica, morale – da rendere inadeguate le “riforme” di cui tanti si riempiono la bocca: “non basta ri-formare, occorre piuttosto tras-formare”.
In una ipotetica classifica degli ambiti da cambiare radicalmente nel nostro Paese, la burocrazia, da sempre ben posizionata, sta arrivando in cima al podio. Le inammissibili lungaggini per erogare la cassa integrazione ai lavoratori e i prestiti alle imprese bloccate dal Coronavirus sono solo l’ultimo tassello di una esasperazione montante, che trova eco in trasmissioni televisive e articoli giornalistici, e cui anche noi abbiamo dedicato qualche spazio. Siamo comunque ben consapevoli che la burocrazia è indispensabile per tradurre in concreto e gestire nel tempo le scelte politiche di un governo, nazionale o locale che sia. Quindi non ci uniamo a chi invoca la fine della burocrazia, come i sanculotti inneggiavano alla fine della nobiltà. Ma riteniamo che il cambiamento nella Pubblica Amministrazione debba essere “rivoluzionario” – termine che solitamente inquieta chi ha un approccio moderato alla politica – e provocare una radicale trasformazione.
La PA ha la sua ragion d’essere nell’erogare servizi al cittadino singolo e associato. Oggi invece, in molte sue articolazioni, dimostra nei confronti delle persone un approccio burocratico e autoreferenziale che di fatto ha invertito il corretto rapporto: occorre che “la PA sia a servizio del cittadino”, e non “il cittadino a servizio della PA”. Il passaggio dalla concezione geocentrica (la Terra al centro del Sistema solare) a quella eliocentrica (il Sole è il centro del Sistema) fu correttamente definito “rivoluzione copernicana”. Non deve quindi spaventare la parola rivoluzione applicata al drastico cambio di paradigma della burocrazia.
Negli ultimi decenni l’opinione pubblica si è sempre più scagliata contro la casta dei politici, spesso anche con fondate ragioni, in un calo di credibilità che da Tangentopoli in poi è andato aumentando sino a toccare percentuali di fiducia inferiori alle dita di una mano. Ma la classe politica non può essere disgiunta, nel bene e nel male, dalla indispensabile struttura tecnica e amministrativa che deve trasformare in realtà le scelte politiche. E chi ha avuto frequentazione dei Palazzi romani, ministeri o altri luoghi del potere – e il discorso vale per Regioni ed Enti vari – sa bene che circola tra i burocrati che li popolano, a mezza voce, una frase ricorrente: “I politici passano… noi restiamo”.
In più, diffusi episodi di assenteismo, negligenza e corruzione hanno minato la fiducia che il cittadino ripone nell’apparato pubblico, di cui i politici eletti (o nominati) rappresentano solo una parte. Il recupero di credibilità delle istituzioni tra i cittadini deve quindi passare non solo dalla rigenerazione della politica, ma anche attraverso una trasformazione della Pubblica Amministrazione. Come riuscirci?
Un primo fondamentale aspetto lo ha già individuato Michele Marino (CLICCA QUI ) nella “semplificazione, abrogazione e unificazione delle innumerevoli leggi (a cominciare dai regi decreti e decreti luogotenenziali) che si sono accumulate nei decenni, attraverso la formulazione di una serie di Testi unici di riordino, a cui dovrebbero essere incaricati neolaureati in giurisprudenza con la specifica formazione del drafting (tecnico-legislativa), riducendo drasticamente il numero stratosferico di circa 160.000 leggi, cui si aggiungono quelle dell’UE, che attanagliano il nostro ordinamento giuridico”.
Un secondo ambito riguarda la qualità della dirigenza pubblica. Se “il difetto sta nel manico”, come ricorda la saggezza popolare, è dai vertici, cioè dalla dirigenza che bisogna partire. Dove ci sono strutture inefficienti, dove si lavora poco e male, ci sono senz’altro dirigenti inadeguati, se non conniventi.
Non ha torto Roberto Pertile (CLICCA QUI) nel ritenere che “il nodo del problema non è, come si pensa comunemente, un eccesso di burocrazia: al contrario, abbiamo una notevole carenza di burocrati all’altezza dei nuovi compiti che si affacciano su uno scenario sempre più esteso, ben oltre i modesti confini nazionali”.
Ritornano alla mente le parole di don Sturzo riferite alla sua Sicilia, ma valide in assoluto: “La Regione, invece di tenere due o tre mila impiegati più o meno senza titolo nei vari dicasteri ed enti, che ha il piacere di creare a getto continuo, ne tenga solo mille, ma contribuisca ad avere mille tecnici di valore, capi azienda specializzati, professori eminenti, esperti di prim’ordine”. Le logiche della politica clientelare hanno portato su un’altra strada, a privilegiare la quantità sulla qualità. Tutti abbiamo conosciuto funzionari e dirigenti ottusi, chiusi nella loro nicchia inviolabile e intoccabile, trincerati dietro regole formali, spesso complicando affari semplici senza usare il buon senso, solo perché – spesso – non possiedono qualità e argomenti migliori.
Per ovviare a tale realtà Marino ritiene “indispensabile ed urgente programmare operativamente dei corsi di formazione e aggiornamento, ai vari livelli decisionali o impiegatizi, per un atteggiamento mentale, culturale e comportamentale anti-burocratico”. Non che la formazione non serva, tutt’altro. Ma efficienza ed efficacia della macchina pubblica non sono migliorate negli anni neppure con il sistema delle valutazioni interne né con gli incentivi delle indennità di risultato: dove hanno fallito i quattrini non riusciranno i buoni insegnamenti. Per trasformare la realtà dei fatti occorre altro. Per primo agire sul reclutamento.
Il sistema del concorso pubblico ha nei decenni mostrato tutti i suoi limiti. A ogni livello il concorso seleziona i candidati con la migliore preparazione giuridica. Un aspetto senz’altro importante, ma limitato. A un dirigente pubblico – così come a uno del settore privato – si richiedono sostanzialmente tre abilità: la competenza tecnico-giuridica, la capacità di organizzare e motivare al meglio i sottoposti, la propensione a risolvere i problemi per ottenere gli obiettivi prefissati. Mentre nel privato la selezione dei quadri dirigenti insiste sull’intera professionalità richiesta ai candidati, nel pubblico il sistema di selezione si ferma generalmente al primo aspetto. Con poche eccezioni, come al Ministero dell’Interno dove, per reclutare funzionari e dirigenti di Polizia, al duro concorso giuridico si aggiungono prove fisiche e psicoattitudinali, e due probanti anni di formazione al lavoro. Tutti i concorsi pubblici per ruoli di responsabilità (a cominciare dai magistrati…) dovrebbero essere potenziati con prove psicoattitudinali, abituali per le selezioni nel privato, capaci di individuare anche la propensione a esercitare responsabilità, leadership, gestione delle risorse umane e problem-solving.
Abbiamo invece tanti – troppi – dirigenti pubblici che una volta ottenuto il posto agognato, a tempo indeterminato e senza possibilità di retrocessione, tirano i remi in barca e hanno come massima preoccupazione quella di scansare i problemi e pararsi… il fondoschiena. Tanti esempi di moderni don Abbondio, appagati dall’essersi sistemati “in una classe riverita e forte”. E il quieto vivere si può ottenere anche con una pedissequa applicazione delle norme, nella babele giuridica del nostro ordinamento.
Certamente non sarà con una struttura ispirata a conservare il posto facendo il minimo necessario che si potrà “promuovere fiducia (…) assicurando decisioni adeguate, efficaci e tempestive sui temi della vita concreta dei cittadini”, come auspicato dal presidente Mattarella nel discorso agli Italiani del 31 dicembre scorso.
Alla riforma dei concorsi andrebbe poi abbinata la progressiva estensione del cosiddetto spoil-system, anche raggiungendo il 50% dei posti dirigenziali complessivamente disponibili, con possibili soglie differenziate, in più e in meno, dovute a specificità dei diversi Enti. La possibilità per la parte politica di poter contare su persone motivate e di fiducia – assunte con contratti a termine per il periodo del mandato amministrativo – nel raggiungimento degli obiettivi politici prefissati, a partire dalla soddisfazione dei cittadini, rientra nella responsabilità degli eletti che al termine del mandato si sottoporranno al giudizio dell’elettorato.
Siamo consapevoli che nella storia amministrativa della disastrata Seconda Repubblica abbiamo assistito ad applicazioni “all’italiana” dello spoil-system, con piante organiche gonfiate da discutibili inserimenti di clientes rimasti poi sul groppone di Enti pubblici e Partecipate. Ovviamente lo spoil system, per funzionare, va applicato all’interno di una pianta organica predefinita, e rigorosamente con incarichi a tempo: se poi il politico di turno preferisce affidarsi a un somaro fedele per incarichi di responsabilità…
Infine per trasformare la dirigenza pubblica, e più in generale il pubblico impiego, bisogna avere il coraggio di applicare il principio di responsabilità. Lo Stato, gli Enti pubblici e locali sono un rassicurante datore di lavoro a tempo indeterminato. Il settore pubblico non chiude, non fallisce, non delocalizza, non dichiara “esuberi”, non licenzia. E non mette neppure in cassa integrazione. Lo abbiamo visto anche in questi mesi di crisi coronavirus: scuole, tribunali, musei e biblioteche, uffici pubblici chiusi, ma stipendi regolarmente pagati.
Chi lavora nella PA deve essere consapevole di tale privilegiata (sì, p-r-i-v-i-l-e-g-i-a-t-a) situazione, e avere comportamenti tali da rinsaldare il legame di fiducia che non può mancare tra cittadini e pubblici dipendenti. Ogni dirigente, funzionario, impiegato pubblico deve insomma essere un po’ come la moglie di Cesare…
Quindi, episodi di corruzione, concussione, truffa per assenteismo ingiustificato, negligenza grave – comportamenti che minano il rapporto cittadino-Stato – vanno drasticamente repressi. Si potrebbe ricorrere a un semplice rimedio: sospensione immediata dal servizio e dallo stipendio dal momento dell’avviso di reato sino al proscioglimento o al giudizio definitivo, e licenziamento automatico – con recupero del danno patrimoniale – in caso di condanna o patteggiamento. Può sembrare draconiano, ma è troppo importante ritrovare e alimentare la fiducia tra i cittadini e lo Stato nelle sue articolazioni, anche per rinsaldare la democrazia e le istituzioni nell’opinione pubblica. Un obiettivo che andrebbe in primis a vantaggio di quella gran parte dei pubblici dipendenti che svolge “con disciplina ed onore” (Costituzione, art. 54) il proprio lavoro.
Queste proposte forse non saranno sufficienti per risolvere tutti i problemi della burocrazia italiana, ma senz’altro vanno nella direzione della trasformazione necessaria. Perché una buona struttura di Pubblica Amministrazione è essenziale per la buona Politica.
Alessandro Risso
Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione i Popolari del Piemonte ( CLICCA QUI )