A prescindere da come si siano spalmati, nel mercato elettorale dello scorso 25 settembre, i voti dei cattolici – in modo particolare dei praticanti, cioè di coloro che hanno mantenuto un rapporto vitale con la fede e con la Chiesa – importa soprattutto rilevare come questi appaiano, si potrebbe dire, “senza fissa dimora”.

In un certo senso, “apolidi” ed afoni, privi di una voce che – nel discorso pubblico, prima che nelle sedi istituzionali – ne rappresenti autorevolmente non tanto eventuali e pur legittime istanze di parte, ma piuttosto la cultura politica, cioè quell’orientamento di fondo e quella metodica dell’agire che derivano o dovrebbero derivare dall’impronta valoriale della loro ispirazione. Così da dare a quest’ultima una configurazione storicamente attiva ed efficace, diretta al bene comune della collettività, piuttosto che alla difesa di interessi particolari, materiali o morali che siano, come se i credenti fossero rannicchiati in una “enclave” che li isoli, li separi, li immunizzi nei confronti dei processi di incalzante trasformazione che stiamo vivendo e che, per più aspetti, avvertiamo come minacciosi.

I credenti sono rimasti sostanzialmente prigionieri della logica bipolare che, da quasi trent’anni a questa parte, ne ha soffocato la passione, compromesso l’intelligenza politica e spento la voce. Ancora una volta marginali e tributari all’uno ed all’altro dei due poli, non meno che alle forze di interposizione che, nel frattempo, si sono inscritte nel “sistema”.

Non c’è stata alcuna evidenza di un pensiero o di una posizione autonoma, di una argomentazione fondata sulle loro specifiche competenze, malgrado siano figli di una cultura “esperta in umanità”. Tanto meno la visibilità di un embrione di nuova classe dirigente. Ora entriamo in una nuova fase e non tanto perché abbia vinto la destra, ma in quanto vengono al pettine, in modo sempre più stringente, i nodi delle svolte epocali che incombono su numerosi fronti.

In un tale contesto, i cattolici, diciamo pure il “mondo cattolico”, in tutte le sue espressioni, anche ecclesiali, pensa davvero di poter promuovere i valori in cui crede affidandosi a culture “altre”? In altri termini – se è lecito porre una domanda che, a suo modo, interpelli anche la gerarchia – la Chiesa in Italia pensa ancora, com’è pur successo, per un lungo tratto, negli anni ancora recenti della nascente “Seconda repubblica”, che sia opportuno che essa stessa interloquisca, in presa diretta ed in prima persona, con il potere politico-istituzionale, assumendo, a tal punto, che una presenza politica di ispirazione cristiana, laicamente autonoma, sia, entro un tale disegno tattico, un fattore di disturbo da scongiurare?

Ove si ritenesse che sia meglio rieditare una sorta di nuovo “Patto Gentiloni” si dovrebbe, però, avere, se non altro, l’avvertenza di cogliere come non vi siano condizioni, anzitutto culturali, che depongano a favore di una ipotesi del genere. Prendiamo, ad esempio, in considerazione le tematiche più coinvolgenti dal punto di vista etico ed antropologico, dalle questioni che si addensano attorno al nascere ed al morire, dalle provocazioni che ci pongono gli sviluppi della genetica e delle neuroscienze, dai progressi nel campo della cosiddetta – molto “cosiddetta” – Intelligenza Artificiale o, piuttosto, dal fiorire di studi, attese e sperimentazioni rivolte al “trans” o “postumano”, dalle teorie del gender.

Si tratta di argomenti non solo rilevanti secondo la nostra sensibilità, ma fondativi della stessa prospettiva di promozione di quei valori di libertà e di giustizia sociale che ancora non sappiamo bene come attestare nel nuovo contesto storico – in mancanza di meglio, chiamiamolo genericamente “post-moderno” – in cui ci stiamo inoltrando. Pensiamo di cavarcela barcamenandoci tra l’uno e l’altro dei due poli? Vagheggiando quella sostanziale indeterminatezza del “centro” che, in tempi di radicali trasformazioni, non avrebbe più ragion d’essere?

Lasciamo pur in pace la sinistra, che non è in grado di uscire dagli stereotipi ideologici di stampo radicale cui, in mancanza di meglio, una volta smarrita la sua vocazione popolare, si è abbarbicata, come fossero un’ancora di salvezza, senonché, al contrario, concorrono ad affondarla. Ma qualcuno pensa davvero che si possa difendere il valore inalienabile della vita, la dignità integrale della persona, ad esempio, ricorrendo a Salvini ed alla pseudo-cultura leghista?

I programmi politici valgono non per la copertura che garantiscono, in termini di consenso atteso, arruolando, attraverso un tema o l’altro, pezzi di elettorato, ma piuttosto per la coerenza interna che li regge. E la coerenza di Salvini e del suo partito è nella logica di costruire muri, di dividere e separare, di respingere l’ “altro”, di suscitargli contro il sospetto, la diffidenza ed il rancore, a difesa di una “identità” etnica da preservare, in nome di quel popolo “italiano” prima disprezzato, poi blandito. Ed ora, con il ritorno di Bossi, nuovamente dileggiato?

Davvero difendiamo le ragioni della vita con chi pur adotta certi punti programmatici, così come brandisci i rosari in piazza, ma di fatto assumendoli come “instrumentum regni”, in netta contraddizione con l’orientamento complessivo della propria azione politica? Si difende la vita con i respingimenti in mare, con le frontiere ed i porti chiusi che si torna ad invocare?

E non vale, forse, la stessa considerazione nei confronti della Meloni che adotta il mantra “Dio, patria, famiglia” dentro quella logica “nazionalista” che la contraddistingue e, di per sé, antepone lo Stato alla persona, così da contraddire radicalmente, ad esempio, lo stesso art. 2 della Costituzione ? Pensiamo davvero che la difesa della vita, come la si deve intendere in una visione cristiana, possa passare attraverso una cultura che pospone la persona allo Stato, secondo reminiscenze ben note, per quanto si dicano bandite?

Si dirà che contano i programmi ed i fatti, e può essere vero. Ma contano – e molto – i presupposti culturali, quei fondamentali da cui mai si deve e si può prescindere.

E’ doveroso, a questo punto, porsi una domanda: ha ragione il Cardinal Ruini quando afferma di ritenere superata la cultura politica del cattolicesimo democratico o, in altri termini, una presenza autonoma di una forza che si ispiri ad una visione cristiana della vita? A favore di una declinazione clerico-moderata del loro impegno? Postura quest’ultima storicamente ricorrente e, purtroppo, in altro frangente temporale, non immune da derive reazionarie?

Se tornassimo ad immaginare una nuova fase “gentiloniana”, ripercorrendo a ritroso la storia del movimento cattolico, non dovremmo dimenticare che, appena un passo ancora più indietro, ci inoltreremmo, pur secondo forme inedite, in una sorta di nuovo “non expedit”.

Domenico Galbiati

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