Il bell’articolo di Domenico Galbiati del 3 giugno u.s. ( CLICCA QUI ) accende i riflettori su un tema rilevante al fine di comprendere e alimentare la partecipazione dei cattolici alla vita politica italiana. Un punto di sintesi tra le due presunte posizioni in alternativa, a mio avviso, è costituito dalla motivazione per cui un cattolico partecipa alla vita pubblica del suo Paese: il motivo andrebbe legato alla sua conversione, all’opzione di fede del singolo credente, all’assenso del suo intelletto e della sua volontà alle verità proprie della fede cristiana nella confessione cattolica, dunque una motivazione squisitamente interiore e spirituale in cui il singolo, in obbedienza al vissuto teologale (fede, carità, speranza), pensa sé stesso come un discepolo di Cristo che, in forza del Battesimo e dell’Eucaristia, è costituito come membro vivo e attivo della Chiesa, la cui missione consiste nell’annuncio del Vangelo e della salvezza guadagnata da Cristo per tutta l’umanità e che la Chiesa stessa è costituita come sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano (Lumen gentium, 1). È una missione di natura spirituale e religiosa e soprannaturale è l’orizzonte ultimo annunciato:

La Chiesa, procedendo dall’amore dell’eterno Padre, fondata nel tempo da Cristo redentore, radunata nello Spirito Santo, ha una finalità salvifica ed escatologica che non può essere raggiunta pienamente se non nel mondo futuro (Gaudium et spes, 40).

Ma proprio in virtù della sua natura e della sua missione la Chiesa s’incarna e si realizza nel tempo e nella storia, dove il regno di Dio si instaura e cresce: così la crescita intensiva della vita teologale nei christifideles si traduce in una sensibilità che non può non tradursi in un’attenzione operativa nei confronti delle molteplici realtà storiche che, nei nostri giorni, spesso hanno un risvolto o un dimensionamento socio-politico e istituzionale:

L’opera della redenzione di Cristo […] abbraccia pure la instaurazione di tutto l’ordine temporale. Per cui la missione della Chiesa non è soltanto portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli uomini, ma anche animare e perfezionare l’ordine temporale con lo spirito evangelico (Apostolicam actuositatem, 5).

Vi è dunque un nesso che congiunge annuncio del Vangelo e promozione delle realtà socio-politiche: l’evangelizzazione innesca un processo di miglioramento anche nel funzionamento delle istituzioni, immettendo un tenore etico nello svolgersi delle attività lavorative e civili in genere e favorendo un equilibrato sviluppo sociale.

Oggi, inoltre, si assiste a un nuovo interesse e a un nuovo approccio alla dottrina sociale della Chiesa che viene considerata nella sua globalità e guardata non come un’ideologia o una morale astratta per le collettività ma come una riflessione strutturata e configurata come un’applicazione della teologia, in particolare della teologia morale, alle sempre ricorrenti questioni etiche sollevate nelle società contemporanee. La dottrina sociale non costituisce una base teorica e alternativa per costruire sistemi politici o economici: ciò non appartiene alla natura e alle competenze della Chiesa, che offre invece un’interpretazione etica dei vissuti sociali alla luce dei valori evangelici:

La dottrina sociale della Chiesa non è una “terza via” tra capitalismo liberista e collettivismo marxista […]. Non è neppure un’ideologia, ma l’accurata formulazione dei risultati di un’attenta riflessione sulle complesse realtà dell’esistenza dell’uomo […]. Essa appartiene, perciò, non al campo dell’ideologia, ma della teologia e specialmente della teologia morale (Sollicitudo rei socialis, 41).

Dunque il nesso profondo tra evangelizzazione e promozione umana è la radice di un impegno sociale che si pone come particolarmente urgente nei nostri giorni, spesso dominati dalla tecnocrazia e dalla frantumazione etica e dove quotidianamente la riflessione sociale viene sollecitata da un processo di crescita e di rinnovamento, corrispondente alla diversa percezione che i cristiani hanno delle loro responsabilità nell’ambito di società anche molto diverse fra loro nelle varie epoche. Spesso, negli anni Sessanta e Settanta in Italia, questa dottrina è stata considerata un insieme statico di regole e di norme del vivere civile o come una ideologia alternativa al socialismo e al comunismo o ancora come una collezione di encicliche e documenti papali che poco avevano a che fare con le società moderne. Oggi invece, dopo una migliore ricezione del magistero del Concilio Vaticano II, la natura e il contenuto della dottrina sociale è stato via via compreso sempre meglio e a ciò hanno contribuito in modo determinante i contributi di pontefici come Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco che hanno sottolineato, nel loro insegnamento, la valenza essenziale di valori come la fraternità, la condivisione e la solidarietà. Ed effettivamente pochi ideali e proposte nella storia hanno esercitato un influsso profondo quanto il concetto, tipicamente cristiano, di fraternità universale[1]: esso emerge gradualmente già nel Primo Testamento nell’insegnamento dei Profeti, in riferimento alle categorie centrali di giustizia e pietà (Es 22,21-27; Es 23,1-9; Dt 24,5-22) e alla convinzione crescente che non si potesse negare aiuto e protezione ad alcun essere umano e in special modo al povero, alla vedova, all’orfano. Nel Secondo Testamento i concetti di giustizia e compassione diventeranno la norma ideale dei rapporti sociali.

Alla luce di tutto ciò, si può capire come sia artificiosa la distinzione tra cattolici dell’etica e cattolici del sociale e come tutto debba essere ricondotto all’unica sorgente costituita dalla sequela di Cristo.

Luca Novara

 

 

[1]Cf Carrier, Dottrina sociale. Nuovo approccio all’insegnamento sociale della Chiesa, San Paolo, Cinisello Balsamo (mi) 1993, 9-14.

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