Un illustre amico – e collega – di Milano si chiede e mi chiede, sulla scorta di una nota qui pubblicata ieri : “Come pensa di coniugare l’etica con il sociale….?” Verrebbe da dire: semplicemente rovesciando l’argomento.

Intanto il nostro interlocutore – se ha, come penso e gliene siamo grati,  qualche dimestichezza con le pagine di questo giornale – sa che, nel solco della nostra piena adesione alla Dottrina Sociale della Chiesa, è assolutamente puntuale la nostra difesa del valore intangibile della vita – e certo non per opportunismo tattico, ma per profonda convinzione – dal concepimento fino alla morte naturale della persona.

Ma, ci chiediamo, come è stato possibile che questi due versanti si siano separati, fin quasi a contrapporsi, almeno restando a quanto si è verificato nel nostro sistema politico – dato che di questo si trattava nella nota di cui sopra – al punto che, come è stato autorevolmente osservato, anche in ambito ecclesiale, vi siano cattolici, cosiddetti “dell’etica” che votano a destra e cattolici, cosiddetti “del sociale” che votano a sinistra ?

In effetti, è difficile ricomporre questa polarizzazione se si permane dentro le categorie interpretative della politica come si sono storicamente consolidate e come le conosciamo oggi.

Sembrano ammettere e giustificare una sorta di reciproca alternatività tra i valori della dignità della vita e della libertà da una parte, i valori della giustizia e della solidarietà dall’altra.

Senonché gli uni e gli altri attengono lo status della persona in quanto soggetto di relazione, perciò immaginare di distinguerli frontalmente significa che reciprocamente si elidono.

Per questo la politica oggi, per essere autentica, cioè capace di attingere ad un fondamento solido e da lì costruire l’impianto di una nuova convivenza civile, ha bisogno, in qualche modo, di andare oltre sé stessa, di raggiungere una dimensione “metapolitica”, per osservare il proprio campo d’azione da  una posizione eminente che le consenta di ricomprenderlo in un solo sguardo.

Non a caso si accennava alla necessità di una sorta di  “rifondazione antropologica” della politica.

In sostanza, al di là  ed oltre l’osservazione del dato sociale, non sarebbe forse necessario che ogni tradizione culturale – soprattutto laddove ambisca ad ispirare una visione del mondo che, a sua volta, orienti un movimento politico – accettasse, senza rinunciare alla propria storia, di risciacquare il proprio impianto concettuale in un confronto serrato con la densità originaria e fondativa della persona, cioè, al di là del fenomeno, con la sua struttura “ontologica” ?

Del resto, oggi lo richiedono i progressi che in campo scientifico e biotecnologico ci consentono di addentrarci talmente a fondo nella più intima struttura del nostro organismo e, soprattutto, di operarvi, addirittura in ordine al suo impianto genetico, interventi prima neppure lontanamente immaginabili, da far sì che l’uomo sia, in un certo senso, consegnato a sé stesso, posto di fronte ad una radicale responsabilità nei confronti del proprio essere, impensabile in altri tempi e, dunque, evocato ad esercitare la sua libertà, si potrebbe dire, fino alla sua frontiera estrema.

Mai come oggi l’uomo è tenuto a prendersi terribilmente sul serio, ad avere cura di sé e, nel contempo, andare oltre, cioè riscoprire quella dimensione della trascendenza che rischia di eludere o addirittura di smarrire del tutto. Deve porsi domande antiche, da sempre irrevocabili, ma in un contesto tematico nuovo, ad esempio, per chiedersi se tutto ciò che è tecnicamente possibile, sia per ciò stesso eticamente lecito. Deve, da sé,  esplorare quali limiti porre ad una potenzialità della tecnica, che, lasciata alla china del suo incontenibile cammino, può condurre ad involuzioni disumanizzanti, ove non sia accompagnata dalla crescita di una consapevolezza etica che ne orienti gli sviluppi, sapendo, peraltro, che quest’ultima, necessariamente, matura secondo tempi che la scienza sopravanza, per cui soffriamo di un divario preoccupante e sempre da colmare tra questi due momenti.

E’ un po’ come se l’uomo sia ancora una volta, come nel giardino dell’Eden, posto di fronte all’albero della conoscenza del bene e del male e dovesse decidere se coglierne o meno il frutto. D’ altra parte, la pandemia accentua l’ impressione che l’umanità, posta di fronte a provocazioni epocali che si presentano in stretta connessione tra loro, si stia avvicinando ad una sorta di salto evolutivo che deve saper vivere ed orientare scientemente. In altri termini, oggi la politica è invasa da quei temi che il nostro amico elenca nel suo messaggio e rientrano tra le questioni a forte valenza etica. Senonché, da parte nostra invitiamo a considerare come queste problematiche non siano rilevanti solo per i credenti, ma per tutti, semplicemente per ogni uomo e per ogni collettività. Non hanno, infatti, a che vedere solo con la fede o comunque con la dimensione religioso della vita, bensì entrano nella guardia di ognuno che non abbia pregiudizialmente, quasi  temesse di venirne compromesso, alzato barriere contro tali argomenti.

Anche qui si pone un’esigenza di “trasformazione”, intesa come costruzione di nuove categorie interpretative che consentano alla politica di dire come, per un verso, non sia possibile  difendere la vita allo stato nascente, se non la si accoglie da ogni dove, se si seminano sentimenti di diffidenza , di ostilità e di rancore e, per altro verso, come sia illusorio pensare che si possa costruire una prospettiva di eguaglianza e di giustizia sociale o di promozione democratica del contesto civile che sia effettivamente solida, senza essere fondata sulla difesa del soggetto più debole, di chi, come il nascituro, vive solo in ragione di una piena accoglienza del suo stato di radicale ed assoluta dipendenza.

Domenico Galbiati

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