Il 48 % di adesioni è l’immagine di uno smottamento inarrestabile. Non è solo la conseguenza del non aver affrontato il c.d. ‘caso Palamara’ quale espressione di un ‘sistema’: in un corpo sociale sempre più dilaniato da rancori, dove il collante di principi fondati su una condivisa antropologia ha ceduto il passo alla ossessiva affermazione di un’autodeterminazioni senza limiti, la magistratura viene sempre più percepita come schierata, culturalmente prima ancora che politicamente.

1. I dati relativi all’adesione dello sciopero indetto dall’ANM fissano sulla carta della piccola storia della magistratura italiana una svolta di non poco conto: coloro che ieri hanno accolto l’invito dell’Associazione sono stati infatti il 48% dei giudici e p.m. italiani, con punte minime del 23% in Cassazione, del 33% nel distretto di Torino, del 38% nel distretto di Roma.

Va detto in premessa che il ricorso a questo strumento di protesta è assai raro per i magistrati, molti dei quali nutrono, legittimamente, riserve di principio sulla compatibilità di una tale radicale forma di astensione dal lavoro con la natura della funzione giurisdizionale.

Nella storia recente, gli scioperi dei magistrati si contano sulle punte delle dita di una sola mano. Al di là del merito delle cause scatenanti, si è fatto ricorso all’astensione tutte le volte in cui, più che la politica lato sensu intesa, singoli esponenti delle istituzioni hanno compiuto atti o hanno provato ad avviare riforme – si pensi al conflitto fra il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga e il CSM, oppure alle iniziative legislative volute dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi -, ritenute lesive dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. Erano scioperi che si inserivano in contesti sociali e politici differenti, con una parte della politica favorevole a quelle proteste – anche per la strumentalizzazione delle stesse in chiave di lotta partitica -, con una l’ANM che godeva del sostegno pressoché unanime dei magistrati (l’adesione allo sciopero del 2010 era stata dell’80%), e con una opinione pubblica che, a torto o a ragione, nutriva fiducia nei giudici, percepiti come ultimo presidio di legalità contro la corruttela dilagante.

Tali contesti non esistono più, e lo sciopero del 16 maggio ne rappresenta l’impietosa certificazione.

2. Partiamo dall’ANM. Meno della metà delle adesioni alla protesta fornisce l’istantanea di una frana che sembra inarrestabile; fotografa il patrimonio di rappresentatività, l’unica risorsa che tiene in vita un’associazione, che si sta svuotando in modo irreversibile. Non è solo la conseguenza della vicenda Palamara; i magistrati mostrano oramai, da diverso tempo e in differenti modalità, di non riconoscere più all’Associazione autorevolezza, e soprattutto dignità di organo di tutela dell’autonomia e dell’indipendenza dell’intero corpo, essendo viceversa percepiti i vertici associativi come facenti parte di un unico sistema di potere, in cui i confini fra CSM, circuiti ministeriali e politica partitica sono da tempo evanescenti. E anzi, la consapevolezza comune è che il dott. Palamara, che dell’ANM è stato lungo presidente, e ha fatto parte del CSM nel quadriennio 2014-18, sia stato immolato come una sorta di capro espiatorio, quasi avesse agito in solitudine, e non in un sistema correntizio che il ‘caso’ ha fatto emergere, ma non ha minimamente intaccato.

Come Centro studi Rosario Livatino abbiamo descritto più volte tale quadro (CLICCA QUI) , contenente gli atti del convegno svolto a Roma il 29 novembre 2019). Dinanzi a un tale diffuso e radicato comune sentire, l’indizione dello sciopero difficilmente poteva colmare una distanza divenuta insanabile.

3. Passiamo alla politica. Quel che va registrato è l’assenza di voci a sostegno dello sciopero; l’unanimità, se non della condanna, quanto meno della censura di inopportunità, certifica un divorzio anche questo difficilmente componibile. Si badi: che magistratura e politica non vadano a braccetto è cosa da guardare con favore. Il problema è che la frattura è maturata non tanto perché la magistratura rivendica la propria indipendenza nell’esercizio del controllo di legalità – il che è sacrosanto! – e la politica tende a mal sopportare tale controllo, ma perché, da un lato, parte della magistratura mostra di volersi sostituire alla politica, ponendosi come supremo legislatore dell’etica pubblica, e dall’altro la politica sembra aver perduto la tendenza a ricorrere alla magistratura per sbarazzarsi degli avversari, o per rifarsi un’immagine credibile.

E qui veniamo a un ulteriore aspetto, assai significativo: quello della fiducia dei cittadini che, per quanto attiene alla magistratura, sembra davvero aver raggiunto minimi storici. La reazione allo sciopero ne è la conferma: colpisce, infatti, l’indifferenza, se non l’ostilità, con la quale è stata accolta l’astensione dei magistrati da parte dell’opinione pubblica. Al di là di una narrazione anti-sistema che ha colpito tutte le istituzioni, e quindi pure la magistratura, la situazione denuncia il venir meno del fondamento di ogni autorità sociale, in modo particolare il fondamento di quella particolare autorità che è chiamata allo jus dicere, cioè a regolare conflitti: l’imparzialità.

4. In un corpo sociale sempre più dilaniato da contese e rancori, dove il collante di principi fondati su una condivisa antropologia ha ceduto il passo alla ossessiva affermazione di un’autodeterminazioni senza limiti, la magistratura viene sempre più percepita come schierata, culturalmente prima ancora che politicamente. Con sempre maggiore frequenza gli avvocati si sentono domandare dai clienti di processi delicati, prima ancora di come definire la strategia nel giudizio, a quale ‘corrente’ appartenga chi dovrà giudicarli. Così perdendo quell’ancoraggio al diritto come limite superiore, sia pure nella versione scolpita nella carta costituzionale; gancio a cui appendere norme e decisioni, se non si vuole correre il rischio di vederle precipitare in un ammasso informe a mo’ di salsicce, come ammoniva Ugo Betti in “Corruzione a Palazzo di Giustizia”.

Un’ultima considerazione, che attiene alle ragioni dello sciopero, anzi alla causa principale dello stesso: la riforma Cartabia. Sarebbe ingiusto liquidare la protesta come espressione solo di un riflesso pavloviano a ogni tentativo di riforma della giustizia e dell’ordinamento giudiziario. Peraltro chi non ha aderito allo sciopero non per questo in automatico condivide la riforma (CLICCA QUI ).

Se, soprattutto, a scioperare sono stati i magistrati più giovani, e in modo particolare i magistrati dei piccoli tribunali, significa che c’è un mondo fatto da giudici e p.m. che, più che preoccupati della carriera o del PNRR, reclama di poter svolgere con dignità ed indipendenza la propria funzione (sulla perdurante strutturale carenza di risorse, anche in prospettiva, CLICCA QUI). È a questi piccoli giudici che forse bisogna guardare per pensare ad un grande ed autentico percorso di riforma.

Domenico Airoma

Pubblicato su Centro studi Rosario Livatino (CLICCA QUI)

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