Il passaggio decisivo del governo e dell’opposizione sarebbe quello di mettere a punto un giudizio univoco e “nazionale” del governo e dell’opposizione sulla questione Israele-iraniana. Senza questa convergenza, l’Italia si condanna a fare da spettatrice.

Il mantra ricorrente è: proteggere Israele, bloccare la bomba nucleare iraniana, fermare Netanyahu. È incoerente e confuso.

Se per proteggere Israele, occorre bloccare il nucleare iraniano, allora cosa vuol dire “fermare Natanyahu”? Qualcuno finora ha bloccato la costruzione della Bomba?

La politica italiana oscilla tra la presa di posizione salomonica di Tajani tra i contendenti, l’attacco della sinistra al Netanyahu “genocida”, fino alla difesa esplicita degli ayatollah da parte della sinistra radicale.

Il Piano d’Azione Congiunto Globale

Pochi ricordano il JCPoA – il Joint Comprehensive Plan of Action- cioè il “Piano d’Azione Congiunto Globale”. Era un accordo internazionale sul nucleare iraniano, firmato il 14 luglio 2015 a Vienna, tra l’Iran e il cosiddetto gruppo P5+1 (i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU: Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Russia e Cina, più la Germania), con l’Unione Europea come facilitator.

Il suo obbiettivo era vincolare il programma nucleare iraniano esclusivamente a scopi civili, e consentire ispezioni internazionali rigorose da parte dell’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica). In cambio, sarebbero state alleggerite le sanzioni economiche – embargo sulle armi, congelamento di beni iraniani, divieto di commercio di petrolio e gas, esclusione dal sistema bancario internazionale – imposte all’Iran da USA, UE e ONU, a partire dagli anni 2000, quando l’AIEA iniziò a sospettare che l’Iran stesse sviluppando armi nucleari, in violazione del Trattato di non proliferazione nucleare (TNP), di cui l’Iran è firmatario.

Le sanzioni USA e UE erano anche la risposta dell’appoggio dell’Iran alle milizie di Hezbollah in Libano e ad Hamas a Gaza nonché alle gravi violazioni dei diritti umani, soprattutto in occasione delle elezioni del 2009.

La frittata di Trump

Nel 2018 il neo-eletto Presidente Trump si ritirò unilateralmente dall’accordo, avendolo già definito nella campagna elettorale nel 2017 “il peggior accordo mai negoziato”. Gli altri firmatari dell’accordo — ovvero Iran, Regno Unito, Francia, Germania, Russia e Cina — espressero un forte disaccordo con Trump. Ma ormai la frittata era fatta.

Da allora l’Iran si è sentito libero di violare i limiti impostigli e ha proseguito sulla strada del nucleare militare. A fine maggio di quest’anno l’Iran possedeva oltre 400 kg di uranio arricchito al 60 %, vicino al livello richiesto per costruire armi nucleari.

È stata l’AIEA a verificare il 12 giugno scorso che l’Iran sta aprendo un nuovo impianto, che utilizza migliaia di centrifughe di nuova generazione, mentre l’Assemblea Consultiva Islamica – il Majles – ha incominciato ad esaminare le opzioni d’uscita dal Trattato di Non-Proliferazione. Intanto la risoluzione 2231 dell’ONU scadrà il 20 luglio prossimo e il JCPoA a ottobre.

Il nucleare iraniano e la lotta contro il Grande e il Piccolo Satana

Perché all’Iran non si dovrebbe concedere di disporre di bombe nucleari, se ne sono dotati, a norma del Trattato di Non Proliferazione del 1° luglio 1968, gli Stati Uniti, la Russia, il Regno Unito, la Francia, la Cina, e, fuori dal Trattato, anche l’India, il Pakistan, Israele e Corea del Nord? La risposta sta nel rapporto tra armi nucleari e strategia geopolitica di ciascun paese. Quella dell’Iran è ben nota: fin dalla presa di potere dell’Ayatollah Ruhollah Khomeini nel 1979 l’obbiettivo dichiarato ai quattro venti dal regime teocratico è stato la distruzione del “Grande Satana” – gli Usa – e del “Piccolo Satana” – Israele -, perché essi incarnano il Male assoluto, cioè l’Occidente capitalista, materialista, decadente.

Questa piattaforma politico-ideologica fu ribadita dall’Ayatollah dieci anni dopo, nella storica Lettera a Michail Gorbaciov il 1° gennaio 1989, nella quale lo metteva in guardia contro il fascino del capitalismo e dell’Occidente, lo invitava se non a convertirsi, almeno a studiare seriamente i filosofi islamici come Avicenna e Averroé e, infine, proponeva l’Islam nella versione sciita come la guida spirituale e come redentore del mondo.

Dopo il 1979, la politica estera dell’Iran non ha neppure provato a distruggere il Grande Satana – salvo alimentare o appoggiare movimenti terroristici anti-Usa e anti-Occidente – ma si è volenterosamente impegnata nell’assediare “il piccolo Satana”, cioè Israele, tessendogli attorno una “mezzaluna sciita”, che partendo dagli Houthi, è salita fino all’Iraq, al Libano degli Hezbollah, a Gaza di Hamas con il proposito non nascosto di farne un cappio e di strangolare “l’entità sionista”, cancellandola dal Medioriente. Accerchiamento che Netanyahu ha spezzato.

La lotta di Israele per l’esistenza

Rispetto a questo assedio sanguinoso, che ha trovato il suo acme nel 7 ottobre 2023, Israele ha avuto a che fare con le oscillazioni e le incertezze di Obama, di Trump I, di Biden e di Trump II, con l’ostilità Putin – riecheggia nei discorsi di Putin e del Patriarca Kirill l’attacco fondamentalista di Khomeini ai valori dell’Occidente – e di Xi Jin-Ping, il cui marx-confucianesimo si propone come alternativo e antagonistico rispetto all’Occidente democratico-liberale.

E l’Unione europea? Spettatrice. Quale che possa essere il giudizio critico sulla politica di Netanyahu verso i Palestinesi e verso Gaza, resta il fatto che Israele sta combattendo per la propria esistenza, esattamente come gli Ucraini. Nessun altro Stato al mondo si trova oggi nella loro condizione. La viltà è l’incompetenza di Trump – proporre Putin come mediatore – e dei suoi seguaci sovranisti-nazionalisti qui in Europa e in Italia, la loro subalternità a Putin e le ambiguità dei gruppi dirigenti europei possono solo aggravare quella condizione.

Regime change?

Che dire dell’ipotesi avanzata da Netanyahu di un possibile “regime change” in Iran? Nessun governo ha diritto di decidere del regime di un altro Stato. I Russi, i Cinesi, gli Iraniani, gli Egiziani, gli Algerini ecc… hanno diritto di tenersi le loro dittature.
D’altronde la storia di questi anni – dall’Iraq all’Afghanistan, alla Siria – dimostra che i tentativi di esportare per via militare la democrazia liberale non sono riusciti. Ma si deve anche ricordare che nel 1939 gli Inglesi e i Francesi non hanno dichiarato guerra alla Germania per cambiarne il regime, ma per difendersi dall’aggressione.
E così Roosevelt nel 1941 contro i Giapponesi.

Alla fine, tuttavia, le sconfitte militari tedesche, giapponesi, italiane hanno portato ad un cambio dei regimi. È stato un male!? Se l’intervento israeliano, oggi condannato da Xi Jin-Ping e da Putin, fosse invece appoggiato senza tiepidezze da Usa e Europa, fino alla sconfitta definitiva della strategia geopolitica del fascismo teocratico iraniano, ciò potrebbe generare effetti a catena positivi in primo luogo per gli Iraniani e per l’intero Medioriente.

Giovanni Cominelli 

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