Con l’udienza del Santo Padre, si conclude oggi a Roma, organizzato dal Dicastero delle cause dei Santi, presieduto dal cardinale Marcello Semeraro, il convegno di studi La Santità oggi. Ieri è intervenuto tra gli altri il prof. Mario Morcellini, di cui pubblichiamo un estratto delle sue considerazioni

“Là dove più grande è il pericolo, cresce sempre ciò che salva” –  Friedrich Hölderlin

Da qualunque angolo di osservazione lo si affronti, il tema della santità rappresenta il punto più alto di provocazione sia rispetto al senso comune che al cosiddetto Progetto moderno. Riflettere dunque sul trinomio «santità, comunicazione e modernità», complesso a livello di impostazione concettuale ma di notevole portata euristica, è promettente in termini di più avanzato chiarimento delle criticità che a ben vedere coinvolgono la Chiesa ma anche i conti che gli uomini del nostro tempo fanno con la religione. Ripartiamo però da un breve cenno al Progetto moderno, avvertendo subito che anch’esso non versa in smaglianti condizioni di salute dimostrando che le criticità nei climi di opinione di oggi rappresentano per tutti uno stress di adeguazione. Al massimo si può dire che funziona per viam negationis, e cioè contro altre visioni e concezioni della vita. Interpelliamo allora i mezzi di comunicazione dal punto di vista dell’impatto sulla cultura e sui valori, chiamando dunque in causa l’etica e le sue domande.

La tematica è complicata dalle incertezze analitiche che, sia nella letteratura specialistica che nel dibattito pubblico, emergono intorno a questo nodo. Si tratta di visioni spesso assai diverse che conducono ad una diagnosi ipercritica o sostanzialmente assolutoria nei confronti del ruolo giocato dalle tecnologie mediali, ferma restando la presa d’atto di una sostanziale torsione nel rapporto tra comunicazione e realtà. Si tratta allora di dar seguito ad una proposta di lettura basata sulla percezione di un disagio diffuso del soggetto moderno a convivere con i paradigmi dominanti proposti, quando non imposti, dal mondo dei media. Il progressivo disancoramento dalla società e da qualunque altra matrice di orientamento e indirizzo culturale, ha prodotto una moltiplicazione degli stimoli comunicativi ormai coriandolizzati in un contesto di crescente perdita di senso, unitarietà e capacità di ricomposizione dei messaggi.

Occorre allora il coraggio di dire che senza un punto di riferimento forte la comunicazione diventa macchina del nulla. Chi studia sistematicamente l’impatto dei media sulla società e sulle persone, senza soggiacere alle mode e al politicamente corretto, può contare su una serie di evidenze concettuali ed empiriche che provano l’infondatezza di un atteggiamento banalmente euforico nei confronti della comunicazione. Non pochi studiosi avvertono negli ultimi tempi il bisogno di una revisione del canone di studi, incoraggiando un’analisi imperniata sulla presa d’atto che troppo spesso la comunicazione ha funzionato da «Ufficio relazioni esterne» della modernità. È tempo di mettere in evidenza una simmetria tra Progetto moderno e diffusione ipertrofica della comunicazione: entrambi presentano limiti, distorsioni ideologiche e qualche complicità di troppo, al punto da rendere indispensabile l’aspirazione ad una risentita revisione critica, premessa indispensabile per un diverso sistema di pensiero.

L’eccedenza comunicativa produce effetti nella percezione collettiva delle mete rilevanti ed erode il concetto stesso di «beni comuni». Non è un esercizio accademico ricordare qui una significativa profezia della più autorevole letteratura scientifica sui media, quando due «classici» quali Lazarsfeld e Merton[1] ipotizzarono come conseguenza della comunicazione un effetto di narcosi della partecipazione. E’ mancata ai media la capacità di accompagnare gli individui nel processo di svuotamento di senso dei modelli sociali e culturali che fino ad allora li avevano guidati, lasciandoli soli a costruirsi catechismi minimi per fronteggiare i disastri e le crisi di tutte le istituzioni deputate alla mediazione. Retrospettivamente si può notare che la comunicazione regala agli individui l’esenzione dai costi e dalla fatica che ogni mutamento comporta, offrendo in cambio la condivisione dei climi culturali dominanti. In altre parole è uno sconto all’ignoranza soggettiva, che facilita l’estensione della conoscenza, non garantendo un aumento reale di competenze per leggere il mondo. In questo clima chiediamoci quanta agibilità sia consentita, nel nostro tempo secolarizzato, ad una Chiesa profondamente rinnovata.

Si tratta di fare i conti con l’Areopago comunicativo contemporaneo, la più rilevante infrastruttura culturale costruita e promossa dalla secolarizzazione: l’indicatore più vistoso di quel che Edgar Morin chiamerebbe «lo spirito del tempo».

La critica alla «società liquida» va del resto ancorata alla vacuità delle sue promesse e proposte, senza trascurare il vulnus rilevato da Francesco e cioè il rischio di «intontire le persone».

Adottiamo allora il tema assegnato nell’economia del nostro Convegno: rileggere il nodo della santità con riferimento al suo possibile aggiornamento, e dunque all’impatto della comunicazione. Pochissimi termini quanto «santità» sembrano infatti contrastanti con un tempo di vistosa revoca in dubbio di tutte le certezze e Istituzioni. Abbiamo di fronte un modello di pensiero e azione certamente legato all’impatto che da tempo la comunicazione esercita, lavorando a lungo termine e avvalendosi di un basso dosaggio di valori, ma gli studi ostinatamente si attardano sugli effetti a breve e medio termine. Un clima di questo genere rende più complessa la trasmissione della filosofia stessa della religione e ha comunque l’effetto di far apparire tutto ciò che somiglia a riflessività, o semplicemente orientamento culturale dell’azione, quale valore fuori corso, destinato a soccombere a fronte dei miti della relativizzazione e privatizzazione del sentimento religioso. Ecco che allora si presenta il tema imprescindibile della ricerca della verità. Essa non può essere considerata “affare esclusivo del soggetto”, ma come tipico lavoro ambientato nella relazione. Già Evandro Agazzi parlava di verità come incontro, alludendo ad una sua autentica proprietà relazionale. La sua ricerca d’altronde non era che la rigorosa risposta alla domanda di senso dell’esistenza, matrice di una aspirazione alle certezze di cui proprio la modernità vive il bisogno.

Nel dibattito contemporaneo, l’attenzione alla radicale sfiducia nella possibilità di conoscere la verità contrasta il dogma in nome di cui essa “semplicemente non esiste». La fredda razionalità imperante nell’Occidente è sembrata autolimitarsi nei confini delle scienze dure, e potente è ancora in questo senso il messaggio di Benedetto XVI orientato a sollecitare una diversa ampiezza della ragione. L’ideologia corrente cancella gli interrogativi propriamente umani, e in particolare quelli legati all’etica e alla religione, mentre una riflessione radicata sulla crisi spirituale del nostro tempo deve riconoscere l’assoluta decisività delle domande relative all’attribuzione di senso all’esperienza e al mondo, «aprendo così alla scoperta del significato della vita». Ecco perché Francesco chiede che oggi l’attitudine al discernimento diventi «particolarmente necessaria», aggiungendo poco più avanti «che il discernimento spirituale non esclude gli apporti delle sapienze umane, esistenziali, psicologiche, sociologiche o morali». Sotto queste angolazioni la santità diventa un tema discordante con le logiche comunicative, al punto da profilare il nostro tempo come quello della post-santità.  In questo scenario la fama e la comunicazione rappresentano già in vita una contraddizione in termini. Vale invece la presa d’atto che non siamo di fronte ad una fabbrica fordista di santi, magari “a numero chiuso”. E’ dirimente infatti la consapevolezza che ogni Santo è un mistero straordinario, come insegna il Pontefice portandoci per mano alla scoperta dei caratteri comuni delle diverse esistenze, tutte comunque andate al di là della loro vita (Esortazione apostolica Gaudete et exsultate).

Le differenze tra modelli di santità spingono a riconoscere che ogni Santo rappresenta una diversa missione, profilando una «classe media della santità» leggibile come vera e propria «santità della porta accanto». Ecco perché l’indagine sulla fama di santità, già complessa prima dell’avvento dei mezzi di comunicazione, che ormai coprono in modo millimetrico la nostra vita, deve essere ripensata radicalmente al tempo del digitale. Le cause dei santi si configurano come l’antitesi del chiasso e della divizzazione cari alla comunicazione contemporanea. Non vale qui, infatti, la prassi dei talent tipici della mistica della “giuria popolare” sui cui limiti basti citare il Manzoni dell’indagine sulle reazioni popolari alla peste: “Era anche in quel caso la voce di Dio”?

E’ un passaggio che riassume il tema che discutiamo, mettendo concretamente a confronto i campi di interesse del giornalismo e della comunicazione, centrati sempre più sulla straripante presenza della narrazione di «nera» e sulla reiterata attenzione riservata alle «storie tese» e alla costruzione di una gigantografia delle emergenze.

Concepire allora una diversa capacità di esemplarità anche comunicativa dei santi implica la necessità di partire dagli indicatori dominanti e dalla nuova retorica espressiva dei media contemporanei soprattutto digitali e social. La verità è che un’assoluta sottomissione alla Media logic costruisce artificiosamente trend testuali segnati da un fragile legame tra contenuti e fatti, una consecutio temporum aleatoria ed una cosmologia di figure retoriche che nascondono sempre discutibili processi cognitivi. In questo contesto poniamo il nostro problema, sottolineando che fino ad oggi la Chiesa è stata attenta a non cadere nella trappola dell’assimilazione, non obbedendo ai comandamenti della tassonomia comunicativa. Il risultato sarebbe stato quello di contare su qualche lotto di tempo in più, con il rischio però di accasarsi nel campo dei vincitori, determinando un vulnus insanabile per il messaggio religioso. Il «fattore-Chiesa», e tanto più la provocazione dei santi, rappresentano un tema ostico e indigeribile in un brodo di cultura in cui si è rivelato saggio mantenersi autonomi e non entristi, anche perché l’alternativa integrazionista sarebbe risultata dissacrante e comunque fonte di nonsense. Unificando lo sguardo tra giornalismo e comunicazione, è giusto segnalare le prove di professionalità offerte da un’ispirazione e un pensiero che riescono ammirevolmente a integrare la forza del messaggio cristiano e la permanente efficacia acustica dei mass media.

Torniamo ora alla questione più scottante in relazione al nesso media / santità, avviando una riflessione di prospettiva ispirata agli ultimi sviluppi della comunicazione digitale. Se «il medium è il messaggio», nulla impedisce infatti che possa affermarsi anche «il messaggio cristiano», indipendente nei confronti delle roccaforti del pregiudizio militante.

Sia le molte sperimentazioni che la letteratura ci dicono che c’è un «digitale buono» pronto a mettersi al servizio dell’uomo nuovo per dare piena attuazione a un diverso Progetto moderno che con prepotenza si fa largo fra le sabbie mobili della contemporaneità. La santità, in altri termini, può vincere la sua sfida anche lungo le trincee di una rete virtuale pronta a farsi accogliente e ospitale quando la dimensione spirituale rivendica spazi e tempi non negoziabili, additando le Colonne d’Ercole di un universo alla deriva, indisponibile però all’ «estremo naufragio».

E’ sufficiente d’altra parte riflettere sulla natura costitutivamente multimediale e multidimensionale della santità per comprendere con quanta facilità sarebbe possibile riprendere un cammino iniziato due millenni addietro, periodicamente interrotto dall’hybris e dalla tracotanza di malintese rivoluzioni che si autodefiniscono illuministe. Basti pensare al sorprendente potenziale spirituale, culturale e cultuale dell’uso delle immagini come Biblia pauperum, ma anche alla capacità, già propria dei primi secoli del Cristianesimo, di integrare molteplici dimensioni comunicative per dare testimonianza della santità cui ogni uomo è chiamato.

I santi hanno sempre parlato a pubblici diversi con strumenti, lessici e sintassi difformi in grado di espandere e moltiplicare fino all’estremo possibile quella che Sofia Boesch Gajano, straordinaria studiosa di agiografia medievale e religiosità femminile, ha definito l’offerta del sacro.

Il santo è un uomo e l’uomo deve aspirare a divenire santo: una verità semplice e assurda al tempo stesso, dipinta a tinte vivaci sulle pareti di chiese di campagna e cattedrali di città e risplendente di luce grazie ai raggi del sole riflessi sulle loro vetrate policrome. “Le immagini dei santi – scrive ancora Sofia Boesch Gajano – hanno dunque primariamente una funzione pubblica, che viene tuttavia personalizzata attraverso il rapporto che il singolo fedele è capace di stabilire per mezzo della sua fede”. Ogni immagine è allora “un ponte fra la realtà del personaggio e il pubblico: esso in questo caso appare in un rapporto più diretto di quanto non avvenga per la produzione scritta, fra devozione al santo e fruizione personale della sua immagine”. La santità appare allora come un “ipertesto” nato nello stesso giorno in cui è comparso il Cristianesimo, senza abdicare alla chiamata alla comunicazione in forza di cui il messaggio evangelico si è propagato nel mondo.

Che la Chiesa e gli uomini di fede abbiano saputo e sappiano servirsi dei “buoni uffici” del web è stata del resto una delle evidenze emerse nel drammatico frangente dell’emergenza sanitaria. Ad una stagione di estraneazione obbligata dei fedeli rispetto alle forme e agli stili più tradizionali di partecipazione alla vita religiosa, l’Istituzione ecclesiastica ha risposto dimostrando una forte capacità di resilienza e adattamento, sollecitata a rispondere a nuovi bisogni spirituali e ad inedite criticità indotte dal dilagare della pandemia. E in questo caso sono state le parrocchie italiane a proporsi come spazi insostituibili di schieramento e dispiegamento di una tenace vis comunitaria rafforzata dall’appartenenza ad uno stesso “popolo di fede” dando prova di un’innegabile presa in carico, da parte della Chiesa, del tragico momento storico vissuto attraverso strategie innovative e al tempo stesso tradizionali, fondate sulla sapiente integrazione fra tecnologie digitali e spirito dei luoghi.

A questa lunga storia si aggiungono oggi gli esiti sempre più avanzati di un’innovazione tecnologica passata a ritmi vorticosi dalla multimedialità alla crossmedialità e da questa alla transmedialità, con aggiornamenti di semantiche e sintassi troppo spesso trascurati in forza di un’imperdonabile sottovalutazione del nuovo. Qui, avviandomi a concludere, il pensiero non può non correre alla straordinaria figura del beato Carlo Acutis, giovanissimo e impareggiabile maestro di un uso etico della Rete, proposta a tutti quale strumento di evangelizzazione e catechesi. Allo scopo di dare testimonianza dell’amore e della santità fino a raggiungere l’ultimo dei suoi potenziali interlocutori, Carlo Acutis realizzò a soli 14 anni una “mostra virtuale” ancora oggi visitata da migliaia di fedeli di ogni parte del mondo, dimostrando che abitare l’ambiente digitale è non solo possibile ma necessario, se è in gioco la conoscenza della Verità e la fede in un autentico rinnovamento della condizione umana. “Lui ha saputo usare le nuove tecniche di comunicazione per trasmettere il Vangelo, – ha scritto Papa Francesco nell’Esortazione apostolica post-sinodale Christus vivit – per comunicare valori e bellezza”. “Essere giovani – aggiungeva – non significa solo cercare piaceri passeggeri e successi superficiali. Affinché la giovinezza realizzi la sua finalità nel percorso della tua vita, dev’essere un tempo di donazione generosa, di offerta sincera, di sacrifici che costano ma ci rendono fecondi”.  Di questo parla l’esistenza di Carlo Acutis: una vita quotidiana e al tempo stesso straordinaria. Lo sottolinea Dario Edoardo Viganò nella Prefazione al bel libro di Nicola Gori Dall’informatica al cielo, “capace di splendere della luce del mistero di Dio che lo alimentava nell’Eucaristia” e di riconoscere “dove la voce di Dio ci chiama ad affidarci allo Spirito che dà la saggezza per discernere la strada da intraprendere, anche nel rutilante planisfero digitale”. Senza mai dimenticare la necessità di una presenza fisica accanto ai bisognosi, dagli amici di Liceo ai poveri di Milano. Perché per Carlo Acutis, “patrono del web e protettore di tutti i cybernauti”, la connessione informatica rimaneva solo uno strumento per poter testimoniare “l’amore di Dio che supera confini territoriali, lingue e culture”, da integrare sapientemente con i gesti, i sorrisi e gli sguardi di un’irrinunciabile interazione e condivisione umana senza la quale nessuna relazione può sopravvivere a lungo, tantomeno quella fra la Terra e il Cielo.

Chi avrebbe pensato, in un tempo in cui raccogliamo tante evidenze di naufragio, che avremmo avuto un testimone così chiaro, e un profilo audacemente postmoderno, la cui vita è per tutti noi, soprattutto comunicatori, un’autentica parabola?

Un modello “contemporaneo” di santità pronto alle sfide del virtuale e della realtà aumentata, per continuare a diffondere una fede che vive perché comunica se stessa con parole ed azioni, senza smettere neanche per un istante di testimoniare la Rivelazione di un Cristo incarnato che si fa uomo ogni giorno.

Mario Morcellini 

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