Qualche giorno fa, il 19 gennaio, è stata la ventesima ricorrenza della morte di Bettino Craxi. L’uomo che tanto incise sulla dialettica politica italiana, a partire dalla seconda metà degli anni ’70. Egli  morì in solitudine ad Hammamet, da condannato e contumace.
Giuseppe Sacco fu vicino a Craxi e con lui collaborò a lungo. Nell’intervista che segue, dice quello che pensa del capo socialista andando decisamente contro corrente. Esprime delle valutazioni che colpiscono e su cui in molti, sicuramente, non concorderanno completamente.
E’ certo però che figure come quelle di Craxi sono complesse e la delineazione completa e complicata di un percorso, di un carattere, di un metodo politico, quelli che del Segretario del Psi hanno in sostanza caratterizzato gli aspetti pubblici, devono essere affidati a quel lento e costante lavorio della Storia, unica capace di andare all’essenza dei fenomeni, che interessino essi le collettività o i singoli.
Ancora, però, tanta è la forza con cui s’impone la figura di Craxi da costringere noi a sentirci ancora immersi cronaca. Allora, di fronte al modo in cui Sacco si muove in questa intervista contro corrente avremmo dovuto rinunciare a pubblicare l’intervista o a chiedere un impossibile da ottenere annacquamento del suo pensiero o a prenderla per quello che è giusto considerarla: un contributo alla definizione di quella verità che un processo storico di sedimentazione sicuramente ci porterà.

Giancarlo Infante:  Di Craxi si è parlato tanto in televisione, sono stati pubblicati alcuni libri, ma tu hai taciuto. Eppure tu di Craxi sei stato collaboratore e, soprattutto, amico di lunghissima data. Come mai?

Giuseppe Sacco – Perché qualcuno di quelli che avevano organizzato degli incontri commemorativi ai quali avrei dovuto partecipare, hanno cambiato idea dopo aver capito che avrei parlato bene di Craxi, che avrei difeso il suo operato e la sua memoria. Ed hanno avuto ragione, perché nel complesso la celebrazione di questo ventennale non è stato altro che un nuovo atto di persecuzione contro di lui.

In particolare, aver trascinato la figlia in televisione perché tutta l’Italia la vedesse soffrire mentre qualche piccolo provocatore si divertiva al ripetere accuse false quanto vomitevoli, è stata una crudeltà che dimostra come l’odio contro Craxi non si sia ancora estinto. Perché la partita di potere  rispetto alla quale Craxi e la politica italiana in quel momento erano un ostacolo è tuttora attivamente in corso. La verità su Craxi non può essere ancora ristabilita. Purtroppo è ancora troppo presto. Probabilmente,fare luce e giustizia su l’uomo Craxi, sul politico Craxi, sul patriota Craxi, è un compito rimandato agli storici futuri.

Giancarlo Infante: Però Craxi, è stato riconosciuto, anche ufficialmente, in una seduta alla Camera, come la vittima di una grave ingiustizia

Giuseppe Sacco – Non pochi anni sono passati da quella cosiddetta “riabilitazione”, e dopo di allora il silenzio è sceso come una gelida pietra tombale sulla sua memoria. Forse c’era da aspettarselo, perché – a giudicare dalle reticenze, di giri di parole, e dai silenzi che avevano caratterizzato le commemorazioni del leader socialista nel decennale della sua scomparsa – bisognava forse trarre la conclusione che un bilancio completo ed onesto della vicenda politica di questa importante personalità della storia d’Italia non è ancora possibile. Bisognava forse trarre la conclusione che sull’origine e la natura delle forze che lo hanno abbattuto sarebbe forse stato più facilmente possibile esprimersi tra il 2006 e il 2007 che oggi. E che comunque, il riconoscimento del fatto che ai suoi danni fu commessa una grande iniquità, quando la classe politica lasciò che fosse l’unico a pagare per colpe di cui tutti si erano macchiati – mentre i suoi innegabili meriti erano suoi, e solo suoi –  è solo un piccolo risarcimento morale, ma non ha in alcun modo segnato una maggiore concordia dell’Italia a riprendere il cammino di dignità nazionale su cui questo grande uomo di Stato cercava di portarla.

Le forze che hanno voluto la fine e la dannazione di Craxi sono infatti ancora presenti, attive e forti. Appaiono anzi in netta ripresa dopo un breve periodo in cui sono parse in eclisse. E il loro ruolo – la loro influenza – è importante in tutto lo schieramento politico, al punto di dare un carattere di vera e propria tragedia all’amara divisione verificatasi tra i figli di Bettino Craxi, nel loro nobile impegno a difendere la memoria, la dignità ed il retaggio storico del padre. Ciascuno di essi si trova infatti, forse con non piena consapevolezza, a convivere più o meno da vicino con entità e soggetti che di Craxi avevano deciso la distruzione già prima dei fenomeni interni ed internazionali che a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90 hanno destabilizzato il sistema politico italiano ed aperto la porta all’offensiva mediatico-giudiziaria che va sotto il nome di Tangentopoli.

La commemorazione di Craxi, nel decennale della sua morte, è rimasta infatti sul piano della riabilitazione personale; un riconoscimento che Craxi fu un uomo animato da un grande ideale politico. Che non fu un volgare avventuriero della politica come hanno cercato di far credere i suoi nemici, che hanno anzi dimostrato, nei quindici anni successivi, di esserlo loro, dei volgari avventurieri di quella che non è più degna di essere chiamata politica.

Giancarlo Infante: Però, tra le file dei craxiani c’erano anche personaggi discutibili

Giuseppe Sacco – Qualche sfumatura che stonava c’era ovviamente anche nel PSI. Attorno a Bettino si era radunato un gruppo di persone di prim’ordine: Ugo Intini, Massimo Pini, Francesco Forte, Loris Fortuna, per citare solo quelli che ho conosciuto da vicino. Ma tra i “craxiani” c’era gente da cui era meglio stare alla larga, gente senza nessuna sensibilità politica, e nessun interesse che non andasse oltre il proprio miserabile egoismo e la sciocca vanità. E tra questi ce n’erano persino di pronti ad assassinare i propri familiari per pochi spiccioli, e che forse l’hanno anche fatto. E questi, che più hanno concretamente beneficiato – ed hanno continuato a beneficiare anche dopo la sua brutale eliminazione – della generosità di Craxi, sono ovviamente stati i primi a rinnegalo e a sputare su di lui arroganti giudizi ammantati di ipocrita moralismo.

Giancarlo Infante: Quali sono state per te le debolezze di Craxi nel presentare un’ipotesi di “terza via” tra Dc e Pci?

Giuseppe Sacco – Io non so se la proposta di Craxi possa essere definita come una terza via,  perché essa non sarebbe stata realizzabile senza un apporto di valori ed il consenso, il supporto di ampie fasce dell’opinione cattolica progressista come di quella socialista anti stalinista, allora ancora assai viva, anche se imprigionata nel PCI. Le due forze culturali non erano infatti veramente alternative, tanto è vero che, non appena caduta l’URSS, DC e PCI trovarono abbastanza punti di convergenza da dare vita a quello che è stato il PD, fino al linciaggio e alla cacciata di Renzi

DC e PCI, in un’Italia bloccata da fattori esterni, non godevano rispettivamente del monopolio del governi e del monopolio dell’opposizione, se non per qual riguardava i rispettivi punti di riferimento sullo scacchiere della guerra fredda. Questa aveva, sì, essa stessa perduto ogni carattere dialettico dopo l’assassinio di Kennedy e il conseguente declino politico di Kruschev, ma era sopravvissuta a se stessa per ormai chiara improponibilità del disarmo e della distensione.

DC e PCI, nel loro periferico teatro italiano, da questo schema non potevano uscire. E quando Paolo VI si convinse che per ragioni storico-etiche di ordine superiore fosse necessario provarci, Moro pagò con la vita l’audacia del suo tentativo.

Giancarlo Infante: E’ stata dunque questa impalcatura internazionale a far sì che Craxi sia finito per diventare il nemico di tutti senza costruire un’alternativa reale al vecchio sistema politico?

Giuseppe Sacco – C’è del vero, in questo. Più che un vero e proprio complotto, come quelli precedenti per assassinare Enrico Mattei, Aldo Moro e Giovanni Paolo II, nonché quello successivo per abbattere Berlusconi, di scala nettamente inferiore, Craxi fu vittima del fatto che incuteva paura a molti, cosicché ad un certo punto si è creata una convergenza quasi spontanea a sostegno di un gruppo di giudici che davano una interpretazione molto estensiva del proprio ruolo nel processo legislativo, e quindi nella società.

E Craxi faceva paura perché – checché se ne sia voluto dire – era sempre fedele a sé stesso, soprattutto intellettualmente. Se pensava che una cosa fosse giusta, non era facile fargli cambiare idea o farlo venire a patti, ed era assolutamente impossibile comprarlo, o intimorirlo. E proprio per questo, in alcune occasioni ebbi paura. Ebbi paura, per lui, Bettino, ma anche per il mio Paese. Non perché egli avesse tenuto così fieramente testa addirittura al Presidente degli Stati Uniti; anzi, il fatto che per la prima volta il mio paese, la Repubblica Italiana si fosse comportato con tanta incrollabile dignità mi riempiva d’orgoglio.

Anzi, fu un onore come pochi che toccasse a me, dopo Sigonella, scrivere sulla rivista ufficiale del PSI, Mondoperaio, l’articolo “Alleati, ma sovrani”, in cui la posizione di Craxi e di (quasi) tutti i suoi Ministri apparve così dignitosa da farmi avere un giudizio positivo persino da Michael Ledeen, che in quella notte aveva giocato da centravanti nell’altra squadra, quella che parlava dall’Ufficio Ovale di Ronald Reagan.

Giancarlo Infante: Ma allora perché e per chi avesti paura?

Giuseppe Sacco – Ebbi paura per il mio paese, perché temevo, come purtroppo si verificò col caso dell’Achille Lauro, che esso venisse coinvolto nelle terribili vicende di una regione, quella mediorientale, in cui l’Italia non ha interessi permanenti, né politici, né economici, né strategici, tranne il libero passaggio nel canale di Suez. Temevo che Bettino, mescolando da buon socialista, impegno politico ed impegno ideale, finisse per allontanarsi dalla fredda logica dell’esclusivo interesse nazionale – che è invece tenuto a seguire chi ha la responsabilità di uno Stato –, per seguire un anelito, tanto generoso quanto astratto, a accorrer in difesa dei più deboli dovunque gli fosse possibile.

Quando un popolo ha liberamente affidato ad un uomo il compito di governarlo – pensavo, e penso tuttora – quest’uomo non può più permettersi il lusso di seguire le proprie passioni, e soprattutto non può andare oltre la dedizione totale e il sacrificio al servizio all’interesse unico del suo paese. Bettino non poteva essere il Capo del Governo di un’intera grande nazione – come fu per quella breve stagione l’Italia postbellica, con molteplici e variegati interessi politici ed economici –  e contemporaneamente ispirarsi all’Eroe dei Due Mondi, un eroe romantico che responsabilità di governo non ha saggiamente mai cercato, e sostenere la causa e il diritto alla lotta armata di tutti i popoli che hanno subito o pensano di aver subito storiche ingiustizie.

È un po’ come la questione del celibato dei sacerdoti. Io sono molto favorevole alle riforme che Papa Francesco sta introducendo nella vita della Chiesa, perché penso che nel caos distruttivo della modernità globalizzata, la fede cattolica sia in grave pericolo.  E che anziché rivolgersi al passato, per salvarla, sia necessario una sorta di balzo furioso verso l’avvenire. Ma non mi sfugge l’argomento di quelli che si preoccupano del fatto che il pastore debba avere una sola priorità, quella verso il suo gregge; perché il fatto di avere anche una famiglia propria, anche se più piccola, potrebbe esporlo a problemi di coscienza e a lacerazioni veramente terribili. Se mi è consentito mescolare il sacro col profano, lo stesso vale per il responsabile del destino di una Nazione, pur facendo questa parte di un mondo in cui in ogni angolo ci sono situazioni che gridano vendetta, oltre che invocazioni di soccorso.

Giancarlo Infante: Non pensi che Craxi sia in parte responsabile della sua sconfitta per essere rimasto in una dimensione verticistica, senza riuscire a scatenare un moto popolare, se non quella contro di sé e del Psi?

Giuseppe Sacco – Qui ci sono due questioni diverse. Cominciamo dalla seconda, per precisare che il “moto” contro Craxi non fu in alcun modo “popolare”. Fu un’opera sistematica di eccitazione di quella particolare plebe che crede di essere informata perché legge qualche giornale. O meglio, legge, nei giornali, qualche titolo ad effetto, senza andare più a fondo.

La seconda questione che la tua domanda solleva è quella dell’accusa di “verticismo”, che tu attribuisci a Craxi. Non so se sia accettabile.  Craxi non solo era un leader nato,  ma credeva profondamente nel ruolo che i leader deve avere quando è a capo di un partito che non rappresenta una sommatoria di interessi già consolidati ed organizzati nella società, che vogliono essere protetti oltre che crescere e progredire. Questo tipo di partito politico è certamente verticistico, e basta pensare al berlusconismo, attorno al cui immutabile Capo si sono raccolte per un ventennio tutte le forze sociali che la tumultuosa e disordinata trasformazione della realtà internazionale rischiava di mettere in pericolo.

Altra cosa il leader di una forza politica che deve farsi carico  tanto della crescita di un paese,  quanto della equa distribuzione dei frutti di tale crescita. Questo tipo di partito ho bisogno di un rapporto fiduciario con la persona responsabile alla sua guida, che ne pagherà il prezzo in caso di insuccesso.

Però, quando una forza politica di questo tipo tradisce la sua funzione e diventa il depositario degli interessi di un apparato partitocratico,  di una élite burocratico-amministrativa, e di una nomenclatura pseudo-culturale, il rapporto fiduciario con il leader si trasforma nel modello seguito proprio da coloro che accusavano Craxi di “verticismo”. Si trasforma cioè in “culto della personalità”,  come avveniva proprio quegli anni con la santificazione di Berlinguer.

Giancarlo Infante: Nel “craxismo” non ci sono degli elementi da “nordista” che in qualche modo sono stati meglio rappresentati e sfruttati da Bossi e, poi, da Berlusconi?

Giuseppe Sacco – Per carità, non bestemmiare! Il “nordismo” di Craxi era quello di Milano, che allora indubbiamente attraversava un periodo di crisi ma che rimaneva, e rimane tuttora il principale centro “europeo” della Penisola. Ed era il “nordismo” di chi voleva tenere l’Italia non solo agganciata all’Europa ma tenerla in una posizione in cui l’Europa non era una semplice sommatoria di interessi particolari, ma uno strumento in cui si perseguirono politiche votate – se necessario –anche a maggioranza.

Sigonella è rimasta nell’immaginario collettivo degli Italiani come la più significativa affermazione della nostra dignità nazionale negli ultimi tre quarti di secolo. Ma bisogna ricordare anche che Craxi ed Andreotti – suo Ministro degli Esteri – si impegnarono in un durissimo braccio di ferro con i nostri partners europei; braccio di ferro da cui uscirono vincitori, e che portò alla realizzazione, nel Dicembre 1985, due mesi dopo la notte di Sigonella, dell’Atto Unico Europeo.

Al contrario, il “nordismo” di Bossi esprimeva, e in gran parte continua ad esprimere, la parte più arretrata e “austriacante” dell’Italia. Era un movimento assai diffuso, non a caso,elle valli dove – per legge – il sale venduto nelle tabaccherie non è solo cloruro di sodio, ma deve comprendere una parte di cloruro di iodio, e negli acquitrini della foce del Po dove, prima che intervenisse generosamente la Cassa per il Mezzogiorno, c’era ancora chi viveva in condizioni estremamente precarie. Per non parlare poi del patetico razzismo contro gli Italiani delle province più meridionali, province spesso molto più civili di quelle in cui trionfava la Liga Veneta.

Giancarlo Infante – E il “decisionismo” di Craxi. Non può questo, assieme ad altri aspetti che apparivano “nuovi” metodi craxiani, come la personalizzazione della lotta politica e della struttura partito, essere considerato una delle cause dell’insoddisfazione di quella parte dell’élite italiana che lo ha combattuto ed ostacolato in ogni modo ?

Giuseppe Sacco – Craxi aveva indubbiamente la tendenza ad assumersi le proprie responsabilità, e certe volte anche quelle degli altri. E in questo non ha eredi, tranne in una certa misura Renzi. Ma quali che siano stati i difetti di Bettino Craxi essi appaiono davvero come dei peccati veniali rispetto a quelli della raccogliticcia marmaglia qualunquista che oggi sta facendo a pezzi il nostro povero paese. Molto forte è infatti la sensazione  che la pseudo “classe politica” attuale sia in realtà formata da bande di opportunisti e di voltagabbana da due soldi che aspetta, per allinearsi, servire ed applaudire, che le decisioni vengano prese da chi conta veramente – poteri economici, governi esteri, gruppi criminali.

Certo, non sono stati loro ad abbattere Craxi. La responsabilità è di persone e di interessi che ancora oggi manovrano, e neanche tanto nell’ombra, nella vita politica dell’Italia, e per impedire una più onesta rivalutazione delle capacità e degli intenti dell’uomo politico di cui in questi giorni ricordiamo il ventennale della scomparsa. Ma non occorre essere giudici particolarmente severi delle vicende umane per sapere fin da adesso che tra Bettino Craxi e coloro che lo hanno linciato ed abbattuto venti anni fa c’è la stessa differenza politica, intellettuale e soprattutto umana, che c’è tra un’altra grande personalità del nostro tempo, Pier Paolo Pasolini, e il suo carnefice, Pino La Rana.

About Author