L’articolo di Guido Bodrato ( CLICCA QUI )sul dibattito intorno alla legge elettorale appare illuminante sotto molteplici punti di vista. In particolare ci ricorda il nesso che intercorre fra la qualità della democrazia e dei partiti e le leggi elettorali.
L’introduzione del maggioritario è avvenuto in una fase della storia della Repubblica, in cui si stava aprendo una profonda crisi della rappresentanza. Una crisi che il maggioritario ha contribuito ad aggravare, aumentando la distanza fra partiti e cittadini, e in tal modo, osserva Bodrato, favorendo l’ascesa dei populismi e dei sovranismi.
Infatti è dall’inizio degli anni ’90 che si assiste a un dibattito miope sulle leggi elettorali, piegato alle convenienze delle maggioranze del momento, senza tenere in debito conto le conseguenze a lungo termine. In questo errore, nel passaggio fra la Prima e la Seconda Repubblica cadde anche la sinistra, illudendosi di poter usare il maggioritario come una pistola puntata alla tempia del “centro”, e soprattutto sottovalutando quale si sarebbe rivelato essere alla prova dei fatti l’effetto principale del maggioritario. Non quello descritto da politologi e costituzionalisti, la democrazia dell’alternanza, la governabilità intesa superficialmente come mera conseguenza del computo dei seggi. No, l’effetto pratico dei sistemi maggioritari in una fase storica caratterizzata dal predominio della finanza sull’economia e dell’economia sulla politica, si è rivelato esser quello di una patologica omologazione del sistema politico e di una conseguente pugnalata al cuore della rappresentanza.
Un tale sistema non ha retto alla crisi finanziaria globale del 2008, e nemmeno ad una sistematica ed abnorme crescita della concentrazione della ricchezza in mano a un gruppo incredibilmente ristretto di soggetti a scapito del lavoro, delle famiglie, della ricchezza delle comunità e degli Stati. Su questi scogli è naufragato anno dopo anno il progetto di poter creare artificialmente un bipolarismo addomesticato, nel quale entrambi i poli non mettessero in discussione il primato della finanza sulla politica.
E così ecco crescere rapidamente i populismi. Quando si cerca di mettere il bavaglio alla democrazia, costringendo i cittadini a sceglie fra due schieramenti, entrambi allineati agli interessi dei medesimi grandi poteri economici e finanziari, si finisce per provocare la loro ribellione nelle urne. Quello che è successo in Italia è successo nel contempo, pur con peculiarità diverse, in Francia, nel Regno Unito, negli Stati Uniti.
Tali fatti dovrebbero insegnarci quantomeno che adesso lo schieramento maggioritario in parlamento in favore del ritorno al proporzionale, non è tale per le stesse ragioni. Un conto sono le ragioni magistralmente indicate da Bodrato, trasparenti, culturalmente e storicamente fondate, le ragioni per cui i Popolari sostengono il sistema proporzionale.
Altra cosa, e ben diversa, sono le motivazioni di molti altri settori di tale fronte. In particolare l’improvvisa conversione proporzionalista dell’ala liberal della sinistra, quella contigua ai poteri economici e finanziari internazionali, sembra piuttosto tradire un estremo tentativo di mantenere lo status quo, cercando di cambiare le regole elettorali affinché nulla cambi.
Temo si tratti di un errore madornale. Senza un chiaro e deciso cambio di rotta delle politiche economiche e sociali, senza voler perseguire il superamento dell’ordoliberismo che nuoce all’economia e che disgrega l’Europa, la recente bocciatura da parte della Corte Costituzionale del referendum di Salvini inevitabilmente si rivelerà una vittoria di Pirro per tutte le forze che lo vogliono contrastare, a cominciare dal centrosinistra.
Scommettere sul proporzionale, non per convinzione come fanno i Popolari, ma solo per convenienza, per proseguire con politiche che danneggiano pesantemente il ceto medio, è un controsenso storico e istituzionale. Il proporzionale è nato per far contare i ceti popolari, per consentire alla classe media di esercitare, attraverso i partiti, un ruolo politico centrale. Pensare di poterlo utilizzare per affermare gli interessi dei pochi, dei pochissimi, contro i più, creando una palude politica di immobilismo e di indecisione in un momento in cui servono con assoluta urgenza scelte strategiche e di respiro storico paragonabili a quelle del 18 aprile del 1948, per realizzare in tempi certi un’unità europea che altrimenti rischierà di non esser possibile più avanti, potrebbe rivelarsi un azzardo di cui stentiamo a valutare le dimensioni.
Giuseppe Davicino
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