Viviamo una fase politica segnata dalla ripresa di un dibattito sulla legge elettorale che è segnato dal conflitto tra sostenitori del proporzionale e sostenitori del maggioritario. I politologi criticano il fatto che entrambi gli schieramenti hanno assegnato alla riforma elettorale il compito di favorire la propria parte, senza preoccuparsi degli effetti che la legge elettorale può avere sulla qualità della politica e sul funzionamento delle istituzioni. Una critica giusta, che dimentica tuttavia come anche in passato – nella transizione dal proporzionale ad maggioritario – alla legge fu assegnato il compito di costringere gli elettori a scegliere tra destra e sinistra e di mettere fuori gioco la DC, mentre nel propagandare la virtù del bipolarismo si sosteneva che avrebbe garantito la stabilità della maggioranza e la governabilità.

In realtà quella svolta elettorale/politica si è realizzata perché il referendum del ’74 sul divorzio aveva reso evidente il declino della centralità democristiana, rendendo possibile l’alternanza, e l’assassinio di Aldo Moro, nel ’78, aveva avviato il tramonto della Prima Repubblica.

Nel corso degli ultimi trent’anni l’orizzonte politico è radicalmente cambiato. Le nuove generazioni non hanno memoria della “guerra fredda” tra USA e URSS, e debbono misurarsi con la globalizzazione e la rivoluzione digitale, con il dominio dell’economia e la guerra dei dazi. Nessuno ricorda che la polemica sui modelli elettorali aveva diviso anche la DC. Giampaolo Pansa, il giornalista che ha raccontato i congressi dei partiti, con più attenzione al comportamento degli uomini che alla storia delle idee, ha raccontato in un resoconto sul XIII Congresso nazionale DC (ripubblicato “Trent’anni dopo”) come nel ’76 esplose lo scontro sull’elezione del segretario politico; e come io motivai la posizione di chi era “contro” l’elezione diretta. Quella proposta anticipava, nella mia interpretazione, il “presidenzialismo”. Prevalse la proposta maggioritaria sostenuta dagli amici di Forlani, ma nel voto per l’elezione del segretario vinse Zaccagnini.

Tra i sostenitori dell’elezione diretta, con Bartolo Ciccardini c’era Mario Segni, che – con Arturo Parisi – ha promosso nel ’90 il referendum sulla riduzione delle preferenze, ottenendo un consenso plebiscitario. In realtà quel referendum ha scatenato, nel 1991, la polemica contro il “regime dei partiti”, che ha finito per diventare matrice dell’antipolitica.

Quel contrasto tra sostenitori della proporzionale, come garanzia del pluralismo e della centralità del parlamento, e sostenitori del maggioritario come garanzia della governabilità, è continuato anche dopo la vicenda bipolare, resa possibile dal Mattarellum, che ha regolato l’alternativa di governo tra Berlusconi e Prodi. Tuttavia quella stagione ha segnato l’avvio della Seconda Repubblica senza portare al bipartitismo ma alla radicalizzazione delle posizioni. E ad una personalizzazione della politica infine contraddetta dalla formazione di un Parlamento di “nominati”.

La Seconda repubblica ha così scavato un solco tra partiti e opinione pubblica, che ha favorito il diffondersi del populismo e del sovranismo.

Queste considerazioni mi hanno indotto a riferire le leggi elettorali alla qualità della democrazia; e la discussione sui partiti alla questione della loro identità. Lo faccio oggi partendo da un articolo di Arturo Parisi, critico con il proporzionale che, dopo molte incertezze, sembra prevalere nel PD. Il titolo dell’articolo di Parisi è eloquente: Il PD punta al suo trapasso. Il proporzionale porterà ad una nuova frammentazione. In realtà, la frammentazione del sistema politico e del PD c’è già stata. Dopo Rutelli, Speranza, Bersani e D’Alema, anche Renzi e Calenda hanno lasciato il PD, con diverse motivazioni. Ma la critica di Parisi è più radicale; riguarda la scelta elettorale del proporzionale, che colpirebbe le istituzioni, la stabilità del governo. In realtà, neppure il maggioritario ha garantito la governabilità mentre ha favorito la radicalizzazione del confronto politico, favorendo infine la transizione dalla democrazia liberale alla democrazia illiberale, autoritaria.

Questo processo sovranista non può certo essere attribuito solo alle regole elettorali, ma ha a che fare con la concentrazione del potere. D’altra parte, è vero che non basta evocare il “partito nuovo” per rispondere alle critiche mosse al proporzionale. Le regole condizionano la politica, ma non sono tutta la politica.

Riferendomi al pensiero di Parisi, alla sua convinzione che la crisi della democrazia rappresentativa sia imputabile ai partiti, alla loro inevitabile degenerazione partitocratica, ho twittato: “Usiamo due diversi dizionari. Il mio dice che la personalizzazione e il maggioritario hanno favorito il tramonto dei partiti, la democrazia autoritaria e la fine del pluralismo, anima della democrazia. Continuo a leggerti e a dissentire”.

Arturo Parisi mi ha risposto: “No, le parole del dizionario sono le stesse. Quello che è diverso è il giudizio sui fatti. Tu dici che i partiti e tra essi il tuo sono morti dopo. Io che erano morti prima. Per compimento. Non per fallimento”.

I fatti… Quali fatti? La vicenda democratica è continuata, dopo la fine della DC e del Partito popolare. E ha riguardato anche il PCI, anche la sinistra. Anche la Margherita e l’Ulivo (e i partiti di massa che l’avevano costituito), anche i Democratici dell’Asinello, che dovevano segnare una svolta storica, “sono morti”; eppure avevano puntato tutte le carte sul bipolarismo, sull’alternativa al berlusconismo…

Ho così ritwittato: “Non voglio annoiare chi ci legge. Ma i fatti, a seconda di come li leggiamo, danno ragione anche a me, e non solo guardando all’Italia”. Qualcosa è cambiato nel mondo, sta cambiando nell’Unione europea. Parisi ha in seguito precisato: “Come tutte le costruzioni dell’uomo anche i partiti nascono e muoiono”. Come non concordare? Mi è tornato alla mente un cartello dei giovani di Praga, dell’89: “Niente dura per sempre”, e si riferiva alla fine del comunismo.

Dopo alcuni tweet a mio favore e altri a sostegno di Parisi, il confronto si è interrotto. Io ho aggiunto, in risposta a chi indicava in Renzi l’alternativa, e nell’astensione la soluzione di tutti i dubbi: “Se viviamo nel tempo che ci è dato, dovremmo sapere che in questo tempo l’astensione è un regalo ai sovranisti; e non possiamo lavarcene le mani”. Un pensiero degli anni giovanili che ho certamente in comune con Parisi, diceva: la politica è organizzazione della speranza.

Concludo con una riflessione che mi fa risalire a Max Weber, straordinario sociologo e storico del ‘900, sostenitore della democrazia parlamentare, e Parisi lo conosce meglio di me. Nel 1919, di fronte alla drammatica crisi provocata dalla sconfitta nella guerra che ha sconvolto il mondo, dal crollo della monarchia e dalla dissoluzione sociale della Germania, mentre la generazione che tornava dalle trincee (dove si decideva con il pugnale) stava per scegliere il Presidente, Max Weber disse: “Se non lo eleggiamo col voto, lo scelgono con il pugnale”; e scrisse che la soluzione a quella drammatica crisi sociale e politica avrebbe potuto essere garantita solo dalla “democrazia plebiscitaria del capo”.

Alcune idee che vengono da lontano, pongono problemi attuali. Anche perché il comportamento degli uomini si intreccia con le idee. La violenza come matrice della storia, può travolgere le convinzioni: anche quelle etiche? Max Weber è morto nel 1920. Mi sono posto, in passato, una domanda… assurda: se fosse ancora vissuto, avrebbe giustificato l’ascesa al potere di Hitler?

Con il nazismo si sono “compromessi” giganti del pensiero filosofico e giuridico, come Heidegger e Karl Schmitt…La storia dipende anche da noi, dai nostri comportamenti, dal contesto.

Per questa ragione Julien Benda, alla fine degli anni ’30, mentre la democrazia in Europa era in crisi e dilagavano i regimi autoritari, si chiedeva: “Avremo la passione necessaria per difendere la democrazia?” E negli stessi anni Peguy aggiungeva: “La libertà è un sistema basato sul coraggio”.

Ma torniamo all’oggi.

La Consulta ha respinto la richiesta di referendum abrogativo, relativo alla legge elettorale, presentato da otto Regioni. Ascolto la notizia e leggo un tweet di Arturo Parisi: “Come atteso e nell’indifferenza generale la Consulta boccia il Referendum maggioritario. 1990, in questi giorni deposito il primo quesito in Cassazione. Dopo trent’anni fine di ogni illusione. C’è chi esulta. Non io…”. Parisi è un politico coerente. La Repubblica ha pubblicato un commento di Stefano Folli che elogia il “vecchio alfiere del sistema maggioritario” e condivide le sue perplessità sul ritorno al proporzionale, ma sottolinea che non si può confondere Parisi con Salvini. La Lega parla di “ritorno alla Prima Repubblica”, di sentenza che ignora la volontà del popolo.

In realtà anche chi è favorevole a un sistema maggioritario, a una riforma presidenziale della Repubblica, riconosce che il No della Consulta al referendum sul maggioritario è motivato: la Lega si proponeva di “manipolare” il sistema elettorale per conquistare una maggioranza che non ha, e per scardinare la Costituzione della Repubblica.

Arturo Parisi, e con lui altri autorevoli sostenitori del maggioritario, presenti anche nella Consulta, stanno dicendo addio a una battaglia durata trent’anni. Forse anche perché hanno compreso che il maggioritario può essere un “cavallo di Troia” della democrazia illiberale.

Ora la sfida del rinnovamento della politica, della governabilità in una società complessa, la sfida del riformismo in un secolo caratterizzato – come aveva previsto Dharendorf – da più competizione economica e meno solidarietà, torna in Parlamento dove i partiti non sono più quelli del ‘900; e debbono rappresentare una società che è radicalmente cambiata, come è cambiato l’orizzonte della politica.

Servono progetti e rappresentanze credibili, che riferiscano l’azione politica ai valori popolari cui si riferisce la Costituzione, partendo dalla persona e dalla comunità, dalla pace e dalla solidarietà.

Guido Bodrato

Pubblicato su Rinascita popolare dell’Associazione I Popolari el Piemonte

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