L’Eurostat ha recentemente pubblicato una tabella comparativa sugli andamenti dei mercati del lavoro dei 27 Paesi aderenti all’Ue nel 2022 che colloca l’Italia al nono posto con un incremento dell’occupazione dell’1,9%, pari a 362 mila nuovi occupati, superiore alla media generale (+1,5%) e dei maggiori Paesi come la Germania (+1,4%), la Spagna (+1,7%) e la Francia (+0,9%).

La crescita dell’occupazione, legata esclusivamente a quella dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, ha consentito il raggiungimento del record storico del tasso di occupazione (60,1%) e del numero degli occupati (23,313 milioni) delle serie storiche registrate dall’Istat.

Ma la buona performance non ha impedito la retrocessione all’ultimo posto della classifica per il tasso di occupazione della popolazione in età di lavoro (-8,9% rispetto alla media Ue) per il sorpasso operato dalla Grecia. Il risultato non migliora se si disaggrega la classifica per la componente di genere maschile (69,4% rispetto a quello medio del 74,8%) e femminile (52,1% rispetto al 65,3%).

L’andamento positivo del tasso di occupazione italiano risulta influenzato dalla decrescita della popolazione in età di lavoro (-670 mila persone negli ultimi tre anni) destinato a proseguire nel corso dei prossimi anni per motivi demografici. Infatti, in termini assoluti l’incremento del numero degli occupati, date le esigue basi di partenza, rimane distante dai +706 mila posti di lavoro realizzati dalla Germania e dai +388 mila della Francia. In queste condizioni, data la prospettiva di un’ulteriore perdita di circa 5 milioni di persone in età di lavoro nei prossimi 15 anni per via del ridimensionamento demografico delle nuove coorti d’ingresso dei giovani e dell’aumento del numero dei pensionati relazionato all’uscita delle generazioni del baby boom, un recupero del tasso di occupazione rispetto alla media europea e un aumento del numero assoluto degli occupati diventano una chimera. Tradotto in cifre, il nostro tasso di occupazione del 2030 potrebbe rimanere inalterato anche di fronte a una perdita di circa 700 mila posti di lavoro.

Una tendenza del genere è destinata a rendere insostenibile la spesa sociale, dato che nel frattempo aumenterebbe anche il numero delle persone a carico di quelle che lavorano. L’attuale bacino di riserva delle risorse umane potenzialmente recuperabili per il mercato del lavoro è rappresentato, secondo l’Istat, da circa 4,5 milioni persone, sommando quelle che formalmente cercano un lavoro (2 milioni) e gli inattivi che dichiarano di essere disponibili a lavorare a determinate condizioni. Questi ultimi, in grande prevalenza, sono giovani e donne che non studiano e non lavorano con un bagaglio di conoscenze ed esperienze non esaltante. Potremmo aggiungere al bacino i lavoratori attualmente occupati con rapporti part-time e a termine ma disponibili a lavorare a tempo pieno.

In questo ambito non vanno trascurate le componenti di flessibilità e dell’adattamento delle persone alle caratteristiche delle organizzazioni che erogano servizi, ovvero della disponibilità a svolgere lavori ritenuti, a torto o a ragione, faticosi, stressanti e poco appetibili soprattutto per la componente dei giovani italiani. Compresi quelli che non hanno competenze ed esperienze di lavoro significative. In generale, quello che emerge dalla lettura di queste tendenze è il deficit di offerta formativa ed educativa, quest’ultima fondamentale per l’orientamento delle persone che caratterizza le nostre politiche del lavoro.

Tutti gli indicatori utilizzati per valutare l’integrazione tra i percorsi formativi e quelli lavorativi – la coerenza delle lauree e dei diplomi, la quantità e la qualità degli strumenti e dei rapporti che integrano formazione e lavoro, i tempi di inserimento lavorativo, la formazione continua per i lavoratori occupati – sono sistematicamente peggiorati nei confronti degli altri Paesi europei. Non è solo un problema di quantità di risorse finanziarie dedicate. L’impatto delle tecnologie digitali sulle professioni e sulle organizzazioni del lavoro genera obsolescenze professionali e tassi di mobilità del lavoro che devono essere affrontati con una massa critica di offerta di servizi di orientamento e di formazione diffusi e altamente personalizzati promossi da una molteplicità di attori, scuole, imprese, servizi di intermediazione, parti sociali. Cosa ben diversa dall’attuale retrogrado impianto delle politiche del lavoro imperniato sul potenziamento dei servizi pubblici dell’impiego che dovrebbe assicurare i destini del nostro mercato del lavoro.

Il tema non può essere affrontato solo sull’adeguamento degli interventi sull’offerta di lavoro. Gli squilibri territoriali, di genere e generazionali, e l’arretratezza di molti comparti dei servizi che sopravvivono con l’ausilio del lavoro sommerso e delle sottoremunerazioni dei lavoratori necessitano di interventi rivolti a orientare la domanda e in grado di rompere i circoli viziosi, a partire dall’utilizzo improprio degli immigrati per compensare l’indisponibilità di manodopera italiana nell’ambito di un mercato del lavoro che sottoutilizza le risorse umane disponibili. Le criticità italiane sono gravi e possono essere affrontate cambiando molti dei paradigmi che hanno orientato le nostre politiche del lavoro nell’ultimo decennio facendo leva sul ruolo delle istituzioni pubbliche per rimediare le lacune della società civile. Una deriva che ha comportato un aumento delle risorse intermediate dallo Stato, e della spesa assistenziale, e il decremento dei tassi di crescita dell’economia e dell’occupazione.

Natale Forlani

 

Pubblicato su IlSussidiario.net

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