Non siamo ancora in grado di attribuire una denominazione attendibile al tempo che viviamo se non chiamandolo “post-moderno”, definendolo per contrappunto a quella stagione dominata, anzitutto, da una fiducia incondizionata ed orgogliosa nella ragione, da cui ci stiamo progressivamente allontanando.

Oggi prevale il disincanto, il sentimento di una nostra inettitudine ad orientare il corso degli eventi, come se cadessimo, si potrebbe dire, in una lettura “dadaista” della storia, laddove negazione e decostruzione, perfino un certo disilluso cinismo subentrano all’impavida pretesa delle ideologie d’ aver individuato, ciascuna a suo modo, la legge sovrana della storia.

La rassegnata ammissione che il pensiero sia “costitutivamente” debole, sembra essere la condizione necessaria perché almeno la contingenza ed il frammento continuino ad essere pensabili. Si potrebbe dire che, paradossalmente, l’unica ideologia che rimane è quella dell’ algoritmo, come espressione paradigmatica della tecnica, concepita come un idolo, una forza in sé “necessaria”, cioè dotata di una coerenza interna incoercibile, alla cui benevolenza dobbiamo sacrificare. Purtuttavia, è come se vivessimo il tempo prolungato, indefinito di una gestazione e, pertanto,  una stagione segnata dall’attesa di un parto, dall’avvento di un rinnovato inizio, una nuova speranza.

La crisi degli ordinamenti democratici si abbevera a questa nuova condizione, che assume un rilievo antropologico; cioè, non è occasionale e momentanea, bensì ha a che vedere con la concezione del nostro essere umani, della vita e della storia che andiamo perennemente rimasticando. Senonché, se guardiamo al tema della democrazia, dobbiamo constatare una discontinuità tra il tempo che oggi ci è dato ed in tempo vissuto sia dagli antichi che dai moderni.

La democrazia degli antichi e la democrazia dei moderni erano fondate, anzitutto, su un comune sentimento di fiducia nell’ uomo e nelle sue facoltà. Oggi, anche nei rapporti quotidiani, tra le persone che comunemente si incontrano, rispetto alla fiducia, prevale la diffidenza ed il sospetto. La postura è cauta e difensiva, ogni “diversità” – non solo quelle etniche, beninteso – viene vissuta come fosse contagiosa, foriera di una minaccia che rompe quella comoda omologazione di usi e costumi, di mode, sentimenti e pensieri che è rassicurante, sia pure a prezzo della propria originalità.

La fiducia reciproca che abbiamo smarrito, quell’apertura all’altro che sostanzia la stessa “coscienza “ che ognuno ha di sé, non era un generico sentimento e neppure un’ idea, un costrutto mentale, ma piuttosto un’esperienza, un vissuto comune che precedeva i differenti orientamenti culturali e li disponeva, accogliendoli secondo un sentimento di reciproca legittimazione, in una forma dialettica. Cosicché, la pluralità degli orientamenti culturali, la diversità delle stesse opzioni politiche si offrivano ad un impegno di alta mediazione, piuttosto che di puntuta, ricercata, pregiudiziale contrapposizione, come succede oggi. A maggior ragione laddove forze colpevolmente irresponsabili, anziché concorrere a ricucire lacerazioni che attraversano sia il mondo civile che quello politico, ne traggono alimento di consenso elettorale, soffiando sul fuoco.

Per immaginare quale debba essere, oggi, la democrazia del tempo post-moderno dobbiamo affrontare, anzitutto, questo gap. E non e facile. Occorre avviare una ricerca ed un cammino. Prendendo le mosse dall’ invito a “de-coincidere” che ci rivolge il filosofo francese Francois Jullien, il quale, tra l’altro, da filosofo ateo, lettore appassionato del Vangelo di Giovanni, sostiene che solo dal cristianesimo, anzi da Cristo, può sorgere oggi la “novità” capace di riscattare il nostro tempo.

“De-coincidere”, nel linguaggio laico di Jullien significa affrontare l’ avventura di una vera e propria “metanoia”, vuol dire sapersi staccare da sé stessi e dalle convenzioni della propria contingenza per riacquisire la criticità autentica del proprio sguardo. Salvo tornarci su, intanto, è certo che in nessun modo personalizzazione e centralizzazione del potere, com’è nei presupposti del “presidenzialismo”, possono rappresentare una soluzione adatta alla governabilità della stagione storica in cui siamo immersi.

Domenico Galbiati

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