Crisi di governo o crisi di sistema?

Questa domanda mi pare decisamente una delle cose più giuste e condivisibili tra le tante, ascoltate negli ultimi giorni e che vanno a finire, confusamente, nel “tritacarne” degli opinionisti televisivi, diretto dalle varie Palombelli, con malcelata indifferenza, tendente a destra (dopo esser stata amica del presidente Cossiga, non che moglie

dell’ex radicale/demo Rutelli), dall’ex parlamentare UE Gruber, dalla bionda Merlino, ben accompagnata dal “mondiale” Tardelli e past-coniuge del mitico Arcuri, e poi Floris, Porro, Del Debbio, Formigli e chi più ne ha più ne metta …
Considerata la serietà del momento attuale – a proposito Flaiano affermava che “in Italia la situazione è grave, mai seria” – ripudiamo “a priori” le scialbe diatribe suchi ha più ragione o, meglio, meno torto tra Conte e Renzi, sulla competenza o meno dei 5 stelle al governo, sull’efficienza/trasparenza (e onestà) del commissario straordinario per l’emergenza Corona-virus, estesa piacevolmente a varie competenze ministeriali, oltre a INVITALIA e ILVA!
E passiamo, invece, al tema oggetto di maggior interesse generale e cruciale: se la causa, profonda o remota, della crisi del 66.mo Governo in 72 anni di vita repubblicana non sia altro che l’effetto, inevitabile, di una crisi più o meno profonda, di sistema, come esattamente notato dal direttore de “la Stampa”, M. Giannini, tra i più attenti e acuti osservatori della politica nazionale. Si tratta, evidentemente, di un “vulnus” che parte dalla fonte del diritto e
ordinamentale dello Stato e più precisamente gli articoli 92 e 95 della Costituzione, cui la legge (con ingiustificabile ritardo di 40 anni!) n.400 del 23 agosto 1988 diede attuazione con il titolo: “ordinamento dell’attività di governo e della Presidenza del Consiglio dei Ministri”.
Premesso che la nostra Costituzione nasceva sulle ceneri della II guerra mondiale e sulle pesanti ferite e lacerazioni economico-sociali del Paese, l’Assemblea costituente dovette addivenire alla formulazione di un assetto democratico che fosse largamente partecipativo e perciò anti-autoritario, caratterizzato da un Presidente della Repubblica
rappresentativo dell’unità nazionale e supremo organo ufficiale, una sorta di “notaio della res publica” che ne garantisca la continuità e l’equilibrio tra i poteri, significativamente l’esecutivo e il legislativo. Si optava, pertanto, per un modello di governo in cui il Presidente del consiglio è un “primus inter pares” e in buona sostanza ha il mero potere, costituzionalmente sancìto, di “proporre la nomina dei ministri”, bensì non quello, altrettanto rilevante e in certe ipotesi di crisi, persino determinante, di revocarli o dimissionarli.
Così come è sì, responsabile della “politica generale”, in quanto “la dirige”, avvalendosi delle strutture divenute molto complesse e disomogenee del segretariato della Presidenza del Consiglio dei Ministri; quindi senza un reale potere di direzione e vigilanza sull’operato dei singoli ministri con riferimento al Programma di governo, concordato e sottoposto al vaglio e all’approvazione e fiducia del Parlamento.
Ora, chi evoca un maggior decisionismo, se non addirittura autoritarismo, fa un’operazione demagogica o soffre di palese ignoranza del diritto costituzionale e delle norme fondamentali del nostro sistema democratico che non può esser sovvertito con promesse da comizio pubblico o con improvvisati manifesti politici, forzatamente ideologici
al fine di attrarre a sé facili e superficiali consensi elettorali dei numerosi cittadini che attendono, magari da sempre, quel “salvatore della Patria” che puntualmente non arriva… (l’avremmo avuto, forse, in Enrico Mattei o Aldo Moro).
Si tratta, piuttosto, di ritornare alla Politica – notare la P – che è cultura politica, abbeverarsi alle fonti del diritto, alle nozioni di politica economica, alla storia gloriosa e all’arte mirabile del nostro patrimonio, il più ricco del mondo, aggiornandosi piuttosto che con i “social” con le esigenze e le finalità alte della ricerca scientifica e tecnologica, della tutela e della sostenibilità ambientali, alla salvaguardi del pianeta che significa averne cura, contenendo il
processo in atto del cambiamento climatico e delimitando lo strapotere antropologico che sta stravolgendo gli equilibri del rapporto uomo- mondo animale e vegetale con conseguenze epimediologiche e pandemiche distruttive e irreversibili.
In ultima analisi, è il momento non più rinviabile di pensare seriamente, piuttosto che ad una legge (d’iniziativa governativa? no!) che modifichi il metodo delle elezioni politiche che non sarebbe la panacea del male incurabile, ma a valutare e riesaminare quel progetto di riforma costituzionale del sistema politico-istituzionale che conferisca al Presidente del consiglio poteri, competenze e responsabilità tali e quali a quelli di un “premier”, semmai ipotizzando
un modello di sfiducia costruttiva, che esiste in altri paesi d’Europa, che consentirebbe alle forze politiche dell’opposizione di poter subentrare a palazzo Chigi senza il necessitato ritorno alle consultazioni elettorali. E non dimentichiamoci del Titolo V con le nefaste deleghe di competenze in materia sanitaria alle regioni con un Ministero della Salute (a cui dovrebbero pensare i medici, i centri benessere e i “personal trainer”) che dovrebbe riappropriarsi della definizione di “Sanità” che vuol dire diritto alla salute pubblica, costituzionalmente previsto e garantito.
In tal modo il Servizio sanitario nazionale potrebbe avere a capo un titolare politico e responsabile unico, la qual cosa darebbe un taglio netto alle infinite polemiche di parte, alle lungaggini dei ricorsi e soprattutto auspicabilmente portare verso una gestione del denaro pubblico meno discutibile, spesso tutt’altro che trasparente: basti pensare al “mare magnum” di miliardi amministrati dalla Regione Lombardia o all’inqualificabile situazione della Calabria!
Che dire, buon lavoro “II Repubblica” e che Dio ci protegga.
Michele Marino

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