Stupisce, fino ad un certo punto, la scarsa attenzione – eppure, in tal senso, la sostanziale sintonia – con cui i nostri maggiori quotidiani hanno sottaciuto, anzi ignorato l’apertura a Bari dell’ incontro “Mediterraneo frontiera di pace”, indetto dalla Conferenza Episcopale Italiana ed esteso a 58 vescovi di 20 Paesi che si affacciano su quel “lago di Tiberiade del nuovo universo delle nazioni”, come chiamava il Mare Nostrum Giorgio La Pira, ieri, non a caso, ricordato più volte – con Aldo Moro – dal Cardinal Bassetti nel suo intervento introduttivo.
Si dirà che si attende, domenica prossima, l’intervento-clou di Papa Francesco. Eppure la conferenza in sé è già un evento straordinario e lo confermano, del resto, i fondamentali punti di riflessione che il Presidente della CEI ha posto all’attenzione non solo dei convenuti, né del solo mondo ecclesiale, ma piuttosto al complessivo contesto della società civile ed al mondo della politica, in maniera del tutto particolare.
Intanto, la Chiesa dimostra di essere un pezzo di strada avanti al resto del mondo delle culture che pur non possono non cogliere come il tema dell’incontro di Bari sia oggi inaggirabile. La Chiesa che più di ogni altra istituzione al mondo, nel suo slancio missionario, fa, da venti secoli, esperienza quotidiana, vissuta, concreta, della “globalità’” del mondo, mostra il valore profetico della sua “cattolicità”, della sua attitudine, cioè a “tenere insieme il tutto”, in una prospettiva di universalità.
Il che – pur distinguendo i piani – è di per sé uno straordinario concorso ad una nuova consapevolezza delle relazioni internazionali – e, per quanto ci riguarda più’ da vicino, delle dinamiche europee – che le istituzioni statali, le culture e le forze politiche che vi operano devono saper maturare, anche mettendosi in ascolto di ciò che a Bari viene e verrà detto nei prossimi giorni.
Nel Mediterraneo l’asse Nord-Sud, la nostra sponda e quella africana, e la direttrice Oriente-Occidente sembrano trapassare – lì dove si incrociano – il corpo vivo del nostro Paese; il corpo fisico, geografico e, ad un tempo, quello culturale e storico. Il mare su cui si affacciano Atene e Roma ed, appena più in là, la stessa Gerusalemme continua ad essere il nodo problematico del mondo, anche in ragione della sua prossimità al Medio Oriente, quell’antica Mesopotamia in cui pure affondano molte radici anche nostre.
Ma, nel contempo, non è tuttora, come da millenni, il luogo privilegiato – e forse promettente – del confronto aspro eppure vitale tra culture che, dai primi vagiti della storia, hanno plasmato quell’identità e quella fisionomia nella quale oggi ci riconosciamo eppure ancora andiamo rielaborando?
Il Cardinal Bassetti ha denunciato una “economia dell’iniquità che uccide”, “le tentazioni identitarie che minano il fondamento del diritto della persona” ed ha invocato una nuova responsabilità delle Nazioni Unite perché si dica “basta a questa politica fatta sul sangue dei popoli”.
Una responsabilità importante compete anche al nostro Paese: riportare l’Europa ad una comprensione più attenta della sua dimensione, anzi della sua vocazione “mediterranea”.
Nella prospettiva di un fenomeno migratorio che, al di là dell’entità degli sbarchi, non è riconducibile ad un che di contingente, bensi segnala una evoluzione epocale che esige, per essere governata, la capacità di comporre quello che potremmo definire come una sorta di “aggregato euro-africano” che faccia davvero del Mediterraneo, secondo la suggestione di La Pira, una sorta di lago interno ad un duo-polio intercontinentale che interroga ed impegna la nostra responsabilità.
Domenico Galbiati

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