Ormai da diversi decenni il nostro Paese fa sempre più fatica a tenere la propria posizione fra le potenze più industrializzate, sia sul piano dei risultati economici, sia su quello dell’innovazione sociale: si pensi, ad esempio, al sistema educativo – in crisi ormai cronica – o al dualismo Nord-Sud, risultante di un insieme di parametri, non solo economici, che ha smesso di ridursi ormai da almeno tre decenni e, dall’inizio della grande crisi ad oggi è vertiginosamente in aumento.

I dati sulla contrazione della nostra crescita – maggiore rispetto a quella, ormai, di tutti i paesi UE – o sull’altra faccia dello stesso fenomeno – la bassa produttività dei fattori produttivi – vengono periodicamente riproposti da agenzie internazionali e nazionali, ma l’impressione è che siano dati poco conosciuti – ma soprattutto non ritenuti interessanti né dal ceto politico, né da i media, né dall’opinione pubblica.

Solo così si spiega quella sorta di monopolio permanente che hanno – per lunghissimi periodi – sulle prime pagine dei giornali (cartacei e web) e fra i titoli dei nostri telegiornali temi privi di connessione con la difficoltà dell’Italia a misurarsi con le sfide della modernizzazione e della crescita.

Solo per citare alcuni dei più recenti: taglio dei parlamentari, invasione dei barconi e ong, pericolo neonazista ed antisemita, uscita dall’euro, femminicidi e omofobia, onestà e defenestrazione della casta, stipendi e pensioni d’oro, rottamazione del ceto politico e dello stesso Parlamento, ecc. Il tutto, come se non bastasse, condito – o alternato, di tanto in tanto – con folate giudiziarie e ricco corredo di relative intercettazioni. Qui non si nega alla radice l’esistenza dei problemi che queste ondate d’opinione suscitano, ma ci si limita ad osservare:

  1. la pervasività di queste campagne, cioè la violenza e la esclusività con cui entrano nelle case degli italiani, oltre che nell’agenda delle forze politiche e delle istituzioni;
  2. la loro genericità, cioè la scarsa (o nulla) attitudine a tradurre i temi agitati in precise scelte di governo, direttamente proporzionale alla loro divisività.
  3. l’alto livello di partecipazione, anche emotiva, che queste campagne riescono a suscitare. Ma soprattutto, quello che colpisce è
  4. la puntuale distanza fra questi temi e quelli della crescita e della modernizzazione del Paese.

Negli stessi anni in cui gli italiani si applicavano a compulsare intercettazioni privatissime pubblicate in prima pagina da tutti i giornali avvenivano i più grandi cambiamenti negli scenari dei nostri approvvigionamenti energetici. Mentre il paese si divideva con calore sui gay pride non riusciva però a trovare il tempo di occuparsi di quello che accadeva in Libia. E mentre milioni di italiani si lanciavano nella nobile battaglia di rifondare la politica ispirandola all’”onestà”, il Paese scivolava all’ultimo posto nell’indice DESI sulla digitalizzazione dei Paesi europei nel silenzio e nel disinteresse generali.

E ovviamente anche oggi è così. Si parla di tutto, ma – fuori dalla ristrettissima cerchia dei diretti interessati – nessuno segue le vicende (non troppo felici) del piano della banda larga, nessuno promuove un dibattito sulla validità delle scelte industriali e normative fatte dai governi precedenti per verificare se esse stanno dando i risultati attesi.

E forse – stante questa situazione – è meglio che nessuno ne discuta perché altrimenti qualche politico in cerca di popolarità potrebbe impadronirsi al volo del tema e allestire in gran fretta una norma “risolutiva”, come avviene da anni in materia di appalti pubblici dove ogni Governo si cimenta – proclamandolo a gran voce – nell’impresa di riformare l’ultima riforma, e per di più in tempi sempre più brucianti. Col risultato finale (detto tra parentesi) di gettare l’intero settore nella paralisi a seguito di una improvvida normetta tributaria introdotta non si sa se per errore o per mera ignoranza (art. 4 del DL 124/2019).

Quello che qui si vuole dire dire è che l’annuncio dell’ennesimo decreto-crescita fatto dal Governo in giorni già così intensi – fatte salve le norme di routine sul pagamento tributi nelle aree rosse et similia – suscita un forte scetticismo – se non addirittura una certa preoccupazione per il rischio dell’affastellarsi di norme confuse e contraddittorie messe insieme in fretta e furia – poiché questo annuncio assomiglia non tanto ad un atto di buona volontà nella direzione giusta, ma piuttosto ad una specie di rituale tributo che i governanti sono costretti a pagare alla cattiva coscienza di un intero Paese ormai da molti anni in preda ad una straordinaria fuga dal pensiero del proprio declino.

Enrico Seta

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