La Meloni ha vinto le elezioni quindi credo che di Ius Scholae o di Ius Soli non sentiremo parlare per un po’ ma questo non significa che il problema della cittadinanza agli stranieri, o quantomeno quello riguardante la loro permanenza nel Belpaese sia risolto. Credo che sia quindi opportuno far tesoro del periodo di calma sulla materia in questione così da poterla affrontare serenamente e farsi trovare preparati quando l’argomento tornerà in agenda.

Fatta questa premessa di carattere generale sul periodo mi pare giusto far presente come qualsiasi proposta sin qui avanzata dalle (mal) destre e dalle (formazioni) sinistre circa la questione della cittadinanza sia ideologica, parziale e, non occorre dirlo, insufficiente e inadeguata a rispondere a un bisogno oggettivamente complesso.

Come incipit al tema potremmo interrogarci sul significato di cittadinanza, cosa comporta in termini di privilegi e oneri e perché è tanto fondamentale. Generalmente si intende per cittadinanza:

“L’appartenenza di una persona ad un determinato Stato, ossia una comunità politica istituzionalizzata con l’assunzione quindi di un insieme di diritti ed obblighi”.

Innanzitutto da questa definizione vediamo come la cittadinanza, di per sé, potrebbe essere completamente avulsa da criteri di etnicità e religione e infatti durante tutto il periodo dell’Ancient Regime e in età napoleonica l’appartenenza a un gruppo etnico non era per nulla rilevante. Basti pensare ai casi dell’Impero Austriaco prima e Austro-ungarico poi, alla Spagna Imperiale e, più in generale, a tutti i regni europei di età moderna. Con puntiglio potremmo obiettare che a quei tempi non vi erano cittadini ma sudditi, ossia individui legati da un vincolo di subalternità e fedeltà a questa o a quella casa reale e che quindi di cittadinanza in senso stretto non si parla più dall’epoca dei Comuni sino alla rivoluzione francese. A questa obiezione possiamo ribattere che la medesima “flessibilità” sulla connotazione etnica della cittadinanza era già caratteristica dell’impero Romano mentre, per quel che riguarda l’epoca Comunale la limitatezza degli stati comunali escludeva, per ovvie ragioni, problematiche di tal fatta. Volendo invece accomunare i concetti di sudditanza e cittadinanza (per mero senso pratico) si vede che cittadinanza ed etnicità nella storia perlopiù non coincidono mentre coincide il principio che può definirsi cittadino (o suddito) chi appartiene a un determinato stato (o regno) e in virtù di questa appartenenza gode di diritti (privilegi) e doveri (obblighi).

Quando dunque appartenenza etnica e cittadinanza diventano consequenziali al punto da rendere ampiamente predominante il modello dello Ius Sanguinis? Tutto ciò si verifica nella tarda età moderna quando si instaura il concetto dello Stato Nazionale ossia un’entità giuridica etnicamente omogenea che trae la sua legittimità dall’essere l’espressione politica di un popolo o insieme di popolazioni affini che si riconoscono in una dimensione comune. È solo con l’epopea ottocentesca che si formano stati quali la Germania (impero tedesco), l’Italia, la Polonia la Grecia ecc. e si gettano le basi per le future rivendicazioni indipendentiste (Bosnia, Rep Ceca, Slovacchia, Austria, Ungheria…) che troveranno coronamento nel ‘900 con il collasso degli imperi multietnici (retaggio dell’età Moderna).

L’Italia, piaccia o meno, è figlia del nazionalismo romantico ottocentesco e pur essendo da sempre una riconosciuta “espressione geografica” abitata da un altrettanto riconosciuto popolo è solo con l’epopea risorgimentale che riesce a darsi una struttura unitaria basata sul principio di italianità per discendenza che, a ben guardare, era l’unico principio applicabile (eccezion fatta, forse, per un principio religioso) per giustificare uno stato nazionale che accoglieva lingue ed esperienze di autonomia plurisecolari nonché millenarie identità e infiniti particolarismi culturali.

In questo marasma culturale multi-identitario i Savoia adottano immediatamente il principio dello ius sanguinis e imperniano il Regno d’Italia sullo Statuto Albertino, già costituzione del regno del Piemonte, il quale fissa un punto fermo che è alla base anche dell’attuale definizione di cittadinanza: Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni determinate dalle Leggi”.

Su questa affermazione la costituzione repubblicana basa il concetto di cittadinanza specificando però la possibilità di avere una cittadinanza multietnica: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Alla luce di questo articolo è chiaramente ammissibile l’istanza di chi vorrebbe una rapida apertura dei cancelli della cittadinanza a chiunque ne faccia domanda ma, ed è un grosso ma, questa condizione andrebbe a minare le già fragili basi su cui poggia il nostro stato nonché aprirebbe porte a scenari paradossali ma non così inverosimili.

I padri costituenti con questa affermazione intendevano sicuramente tutelare le minoranze etniche presenti sul territorio nazionale ma, certamente, non pensavano al problema con cui ci misuriamo oggi e che vede coinvolte centinaia di migliaia di persone risiedenti sul suolo nazionale e ben lungi dall’appartenere al principio di italianità anche volendo usare i termini assai labili dell’accezione storica di questo termine.  Oggi, dunque, per la prima volta da secoli, siamo chiamati a superare il concetto dello stato nazionale etnicamente omogeneo per orientarci su altri elementi aggreganti. L’esperienza storica insegna che i più forti elementi aggregativi sono l’identità etnica e quella religiosa e, in seconda battuta e di assai minor valenza legante le condizioni di vantaggio e la militanza comune (sia essa militare o civile). Non stupisce dunque che la gran parte degli stati trova giustificazione su base etnica, alcuni su base etnico-religiosa (per esempio l’Arabia Saudita) molto pochi invece scelgono di riconoscersi in principi al di fuori di questo dualismo (Usa) e solo uno stato fa della confessionalità l’esclusiva identificazione di sé (Israele). Il caso americano è presentato dai fautori dello ius solis/scholis come modello di successo ma, ad osservarlo da vicino, notiamo che non è tutto oro ciò che luccica. In primo luogo fino alla metà del ‘900 essere americani significava riconoscersi nell’”american dream” e accettare il modello sociale che vedeva la leadership culturale e politica saldamente in mano ai WASP (bianchi, anglosassoni e protestanti) e, in misura minore, ai bianchi di origine germanica – mitteleuropea. La rivoluzione culturale degli anni 60-70 e le successive ondate migratorie che hanno sovvertito i rapporti etnici interni alla popolazione americana (aumento degli afroamericani, crescita esponenziale dei “latinos”) hanno messo in discussione questo modello e oggi l’identità statunitense è molto meno solida che in passato e il sistema mostra evidenti crepe. Trump non è un marziano, non è sbarcato a Washington con un disco volante ma, più semplicemente è la punta dell’Iceberg, la spia d’allarme che segnala la presenza di un guasto al sistema. Non è un caso che, anche con un presidente più “canonico” al potere e un chiaro nemico alle porte (la Russia), la contrapposizione politica tra democratici e repubblicani non accenna a scendere di tono e anzi va vieppiù assumendo connotazioni “europee”. Questa astiosità politica trova le sue radici non solo nell’inconciliabilità delle visioni liberal e conservatrici ma va alimentandosi anche in virtù di ritrovate tensioni etniche favorite dalla riduzione del benessere diffuso, dalla percezione di non essere più l’unica stella del pianeta e da contrapposizioni anche religiose. Ricordiamo che i “latinos” sono generalmente cattolici, gli anglosassoni protestanti mentre la popolazione liberal presenta un diffuso agnosticismo/ateismo che sfocia sovente in avversione verso la religiosità qualunque essa sia. Perché questi improvvisi problemi? Probabilmente la causa prima è da ricercarsi nella fine del periodo espansivo degli USA: non ci sono più nuove terre da conquistarsi all’Ovest, come avveniva negli anni d’oro del far West o le possibilità espansive come avveniva nel periodo ante crisi del ’29. Sono venuti meno anche gli slanci economici figli della vittoria nel secondo conflitto mondiale e di quello risultante dalla vittoria della Guerra Fredda e, con essi, sono finite anche le possibilità di neutralizzare i problemi con abbondanza di ricchezze.

La domanda sorge spontanea: In tutto ciò che c’entra l’Italia?

L’Italia c’entra con le riflessioni sugli Stati Uniti quando, improvvidamente, qualcuno giustifica le sue proposte portando ad esempio una realtà come quella Americana che con la situazione italiana ha poco o nulla a che spartire. Anzi a voler essere pignoli l’Italia è l’esatto opposto: una piccola nazione con una storia tri millenaria priva di appeal ideal-ideologico e, soprattutto, della strapotenza economica che per oltre un secolo ha caratterizzato i nostri alleati d’oltreoceano.

Assodata quindi l’assenza di quei fattori che hanno consentito un certo successo al modello di cittadinanza americano ritengo, conseguentemente, che un melting pot culturale non può che rivelarsi una “bomba a orologeria” che non mancherà di presentare il conto esattamente come è avvenuto e tutt’ora avviene in Belgio, Francia e Regno Unito che sono paesi con condizioni indubitabilmente più simili alle nostre.

Quindi? Rifiuto tout-court di modifiche alle leggi che regolano la cittadinanza? No. Come già anticipato la presenza di milioni di stranieri residenti nelle nostre città e parte attiva, a vario titolo e livello, nella realtà socio-economica che ci circonda rende superato e foriero di problemi anche il modello dello ius sanguinis che, paradossalmente, rende difficile la vita a uno straniero residente da molti anni ma che, teoricamente, consente l’acquisizione della cittadinanza a milioni di sudamericani che il nostro paese l’hanno visto, forse, solo nei documentari.

Per ovviare a questo problema credo che la nostra proposta riguardante la concessione della cittadinanza agli stranieri debba tener conto dell’impossibilità di proporre soluzioni semplici a problemi complessi e debba tener conto del nostro ricco passato che, forse, può contenere modelli da cui trarre spunto e beneficio. (Segue)

Mattia Molteni

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