Un “personaggio che nessuna democrazia vorrebbe trovarsi tra i piedi”. Questa non proprio lusinghiera definizione se l’era “guadagnata” davvero a caro prezzo Sheldon Adelson, il mega-biscazziere implacabile feroce nemico dei Palestinesi, morto nl 2021, e che nel 2008 era – dopo Bill Gates e Warren Buffett – il terzo uomo più ricco degli USA, proprietario dei più grandi Casinò del mondo, a Las Vegas come a Macao. Nella seconda tornata presidenziale vinta da Obama, Adelson aveva infatti contribuito alla campagna del suo avversario Mitt Romney con 47 milioni di dollari, una somma allora considerata favolosa. Anche se oggi, nell’epoca di Elon Musk, fa quasi sorridere.
Autorizzate dal massimo organo giudiziario, che ha ripetutamente sancito che i contributi senza limite delle persone giuridiche alla politica sono considerate una forma di libera espressione del pensiero. Ma, in realtà, queste torbide iniezioni di danaro hanno segnato una tragica svolta nella democrazia americana. Avendo fatto della campagna presidenziale del 2012 la più costosa della storia americana, e visto il sorpasso, nella gara a chi finanzia di più, del biscazziere sullo pseudo-finanziere George Soros, che dal 2004 deteneva, con 27,5 milioni di dollari, il record precedente.
In quell’anno, quest’ultimo, finanziere di origine ungherese – uno dei pochi tycoons favorevole ai liberals, ma la cui ricchezza ha origini assai oscure – si era infatti impegnato a fondo nel tentativo di cacciare dalla Casa Bianca l’allora Presidente George W. Bush. Ma dopo il fallimento di quel tentativo aveva smesso per otto anni di finanziare la politica. Durante i quali, nonostante molte pressioni, nel 2012, aveva dato solo un milione di dollari per la rielezione di Obama. Soros torna, infatti, in campo solo alla fine del 2015, con un finanziamento di 8 milioni di dollari a favore del Political Action Committee, della ex-First Lady, quando era apparso chiare che la candidatura Sanders minacciava seriamente le possibilità di Hillary Clinton
Il danaro e la politica
L’enorme influenza esercitata dai grandi tycoons nella democrazia americana è considerata perfettamente legale e – a quanto pare – sarebbe in armonia con il pensiero di coloro che scrissero la Costituzione. Già nel 1976, infatti, nel celebre caso Buckley v. Valeo, la Corte Suprema aveva affermato che non si possono porre limiti alla volontà dei gruppi finanziari ed industriali di usare l’arma della ricchezza a favore di un candidato o di un partito. Perché ogni limitazione a questa pratica lederebbe la libertà di espressione, e sarebbe quindi in contraddizione col Primo emendamento della Costituzione.
A questa opinion della Corte Suprema hanno fatto seguito tutta una serie di altre pronunzie, fino alla cosiddetta Citizens United v. FEC, del 2010, in cui la Corte ha chiuso la questione una volta per tutte, cancellando tutte le preesistenti norme che potevano far ostacolo alla discesa del grande business nell’agone politico. Si tratta di una decisone epocale che attribuisce alla tutela degli interessi un ruolo analogo, ma tutt’altro che paritario, a quello riconosciuto a ciascun cittadino adulto. E pone gli interessi economici sullo stesso piano di ciò che in tutti i paesi civili il voto serve a tutelare: diritti che non hanno alcun senso per le persone giuridiche, soggetti “artificiali” che hanno – appunto – solo interessi. Mentre agli esseri umani vanno riconosciuti i diritti naturali: il diritto alla vita, alla tutela alla nascita, all’istruzione, alla libertà, alla protezione sanitaria, al lavoro, all’alimentazione, alla pensione, ad una morte dignitosa e, secondo la Costituzione americana, persino alla ricerca della felicità.
Se Adelson si era tanto impegnato a finanziare i Repubblicani, e in particolare Romney, non era stato infatti per tutelare qualche diritto fondamentale degli esseri umani, ma per portare avanti interessi di altro tipo. Come ha fatto notare uno studio del Center for American Progress, se Romney fosse stato eletto, la sua politica fiscale avrebbe significato per i casinò di Adelson un beneficio di circa due miliardi di dollari. A cui si sarebbero aggiunti i benefici derivanti da un allentamento del divieto di fumare nei locali pubblici, contro cui questo mogul del gioco d’azzardo – che era anche stato sfiorato senza danni da inchieste relative alla prostituzione nel mondo delle sale da gioco – ha condotto per anni una accanita e organizzatissima campagna.
Com’è noto, Romney venne sconfitto da Barak Obama, ma le conseguenze corruttrici dell’enorme massa di danaro confluita verso di lui, tendente a distorcere la scelta popolare sono continuate, e si sono anzi accresciute. E non si trattava soltanto del fatto che – tanto per restare nell’esempio del caso Adelson – per contrastarne la manovra erano scesi in politica interessi ancora poco organizzati, ma potenzialmente ancora più pericolosi, come quelli legati al cyber poker, più o meno direttamente in concorrenza con i casinò.
E’ sempre stato noto che dietro i giochi d’azzardo on line c’era tutto un mondo oscuro e globale. Ma non si trattava solo di questo: c’era di più e di più grave. Perché le conseguenze dell’assurda decisione della Corte Suprema, hanno aperto de jure il processo elettorale a qualcosa che, comunque la si voglia chiamare, assomiglia molto alla corruzione. E che si avverte ormai anche in un campo assai più delicato: quello della giustizia.
Il danaro e la giustizia
Per gli europei il collegamento non è immediato, perché i loro giudici non sono elettivi, come avviene invece – in maniera diversa secondo i diversi Stati – sull’altra sponda dell’Atlantico. Qui, il massiccio finanziamento di campagne a favore di giudici conservatori, e quindi ad influenzare politicamente le pronunce, appare ormai come una deriva assai pericolosa.
La radicalizzazione partigiana nella politica degli Stati Uniti che ha incominciato a farsi sentire pesantemente già alcuni anni fa, si è tramutata di recente in un problema assai serio. Essa è diventata più drammatica nelle elezioni presidenziali, perché alimentata a suon di milioni di dollari, ma anche più diffusa, perché si sta estendendo alle competizioni elettorali per controllare la composizione delle Corti Supreme di un gran numero di Stati.
E siccome da queste spesso dipende la selezione dei giudici livello inferiore, il fenomeno si sviluppa a macchia d’olio, con il rischio di minare definitivamente la fiducia nel sistema giuridico, già gravemente ferita dalle sistematiche assoluzioni dei poliziotti che sempre più spesso sparano a sangue freddo contro gli afroamericani o altri esponenti di minoranze, anche se innocenti e disarmati.
L’elezione dei giudici è così diventata, nell’ultimo decennio, terreno di scontro aperto tra liberals e conservatives largamente finanziati da gruppi tendenti ad a tenere i singoli giudici sotto la minaccia di perdere il posto se danno la sensazione di essere soft on crime, e soprattutto soft on death penalty. Nei primi anni del nuovo secolo, si sono moltiplicati i casi, come nell’Idaho, dove si è cercato di destituire i giudici dimostratisi troppo tolleranti nei confronti delle coppie gay, o poco propensi a dare sentenze “esemplari”, comportanti cioè pene senza vero rapporto con la gravità dei crimini, ma tendenti a mandare un segnale politico in senso conservatore.
Ciò è facilitato dal fatto che già da alcuni decenni in una ventina di Stati i giudici, in primo luogo quelli delle Corti Supreme, sono scelti dalle autorità politiche. E il principio della elettività è stato ridimensionato nel senso che i giudici, dopo un certo numero di anni, per essere mantenuti in funzione debbono affrontare una votazione da parte del pubblico.
Ormai evidente, in America, è come il principio della elettività, in origine concepito come garanzia di indipendenza della Magistratura dal potere politico, si sia tramutato di una vera e propria spada di Damocle sospesa sulla testa e sulla coscienza dei magistrati, specie da quando alcune grosse fortune, come quella dei fratelli Charles and David Koch, sotto l’etichetta di Americans for Prosperity, hanno incominciato a sostenere ogni sorta di battaglie ultra-conservatrici a livello dei singoli stati. Al punto che, nel 2014, l’allora Majority Leader del Senato, durante un discorso in aula, giunse ad accusarli apertamente di “voler in sostanza comprarsi il Paese”.
La pena di morte uccide il giudice
Il primo e più eclatante precedente di questo fenomeno era avvenuto quarant’anni fa, nel 1986, quando l’elettorato della California sancì la decadenza di tre membri della Corte Suprema, tra cui la Presidente Rose Bird, la cui colpa era quella di non avere, nei nove anni in cui era stata in carica, mai votato a favore di una pena di morte. Ma la vera novità fu allora che la campagna per defenestrarla era stata condotta principalmente dal big business attraverso inserzioni televisive a pagamento, il che non era mai accaduto su scala così massiccia. Tanto che il Los Angeles Times non esitò a scrivere che la Bird “era stata vittima di una campagna multimilionaria”, e ne nacque un libro:” How death penalty killed a career”.
Se la possibilità di iniettare grosse somme di danaro in queste votazioni to retain or replace riesce spesso ad intimidire i giudici, nella società civile americana esistevano allora ancora fasce d’opinione che dell’eredità dei Padri Fondatori e delle caratteristiche fondanti della Nazione danno una interpretazione per taluni aspetti diversa da quella imposta della Corte Suprema con la sentenza Citizens United v. FEC.
Non era insomma possibile che questa evoluzione del sistema giudiziario andasse avanti per tanti anni senza sollevare reazioni e controforze. Ed infatti, il fenomeno è stato studiato in maniera assai critica in sede accademica, ad esempio dalla Indiana Law Review, e alla Law School dell’Università di California. Né mancano a Washington le organizzazioni non profit, tra cui le principali sono Justice at Stake ed il Brennan Center for Justice che tentano di creare una coalizione di forze a difesa dell’indipendenza della Magistratura, e a protezione del sistema giudiziario dall’invadenza delle nuove fazioni politiche di estrema destra e dai miliardari che le finanziano.
Combattere il fuoco con il fuoco?
Ci sono però anche reazioni tali da suscitare gravi perplessità. Ed è stato ancora una volta nel Tennessee che, nell’estate del 2014, è apparso un risvolto del tutto inedito di questo preoccupante fenomeno di commistione tra denaro e diritto. Lo si è visto appieno quando tre dei cinque componenti la Corte Suprema dello Stato sono usciti vittoriosi da una consultazione di “retain or replace”, e quindi riconfermati nella carica da una maggioranza popolare. Ma ciò è avvenuto solo dopo una battaglia accesissima e singolare, in cui una fazione del locale partito repubblicano ha cercato di farli decadere per il loro presunto orientamento liberal: fortemente presunto, invero, data la loro posizione era notoriamente a favore dell’uso sistematico della pena di morte.
In realtà, anche se i tre erano accusati di “non rappresentare i valori conservatori della maggior parte dei Tennesseans”, la materia del contendere era politica, e ruotava attorno ad una nomina, quella di un Procuratore, considerato “di sinistra” per aver rifiutato di far parte di un gruppo di legali che avevano intentato una causa contro Barack Obama per la sua politica sanitaria.
La vicenda non è la più notevole sotto il profilo delle quantità di danaro coinvolta (circa due milioni di dollari), ma per l’origine dei finanziamenti. Non c‘erano grandi tycoons tra i conservatori che volevano togliere ai giudici il loro mandato. Il finanziatore principale della campagna per mettere in riga la Corte Suprema dello Stato è stato infatti un politico, Ron Ramsey, Vice-Governatore del Tennessee, che ha donato 425.000 dollari raccolti dal proprio Comitato elettorale.
Ma l’anomalia più grave la si è vista sull’altro versante. La reazione spontanea dei tre giudici a questa invasione di campo da parte della classe politica, è stata logica e coerente – e in realtà molto “americana”: fight fire with fire. Vista minacciata la loro posizione, i tre giudici si sono messi anch’essi a raccogliere fondi per pagarsi inserzioni pubblicitarie sulle TV locali, in contrapposizione alla pubblicità ad essi ostile ospitata a pagamento dagli stessi media.
Questa reazione – che si è rivelata capace di cancellare l’iniziale sproporzione di forze – alla fine ha però creato una situazione ancora più ambigua e pericolosa del fenomeno cui tentava di fare da contrappeso. Se i tre giudici del Tennessee sono riusciti a raccogliere complessivamente più di un milione di dollari, ciò – con un paradosso solo apparente – non li ha resi più indipendenti, anzi li ha posti in una situazione di dipendenza che rischia di metterli in ginocchio di fronte alle parti che, davanti a loro, quotidianamente si affrontano in sede giudiziale. La maggior parte, circa il 70 per cento, dei contributi è stata infatti “generosamente” donata da avvocati, o più spesso società di avvocati, operanti nella loro giurisdizione.
In ginocchio di fronte agli avvocati
Non si trattava quindi di un qualche super-ricco dall’immagine liberal, stile Bill e Melinda Gates – i quali, si noti hanno di recente annunciato, una accelerata riduzione della loro attività –, con cui i giudici non avrebbero probabilmente mai più avuto nulla a che fare nella loro vita. Al contrario: i loro “benefattori”, coloro che sono accorsi in loro difesa, erano persone del loro stesso ambiente. Si trattava di avvocati con i quali il giorno dopo, o al massimo una settimana dopo, essi erano destinati a trovarsi fronte-a-fronte in sede processuale, per dirimere questioni molto concrete. Ciò ha creato non solo un chiaro conflitto di interessi, ma anche una situazione in cui la corruzione potrebbe confondersi con concussione. Insomma, un ambiguo clima psicologico anche pe altri giudici, che domani potrebbero trovarsi a dover affrontare un’analoga campagna elettorale e un’analoga necessità di andare alla ricerca di finanziamenti.
Nella battaglia sulla composizione delle corti supreme dei vari Stati si rispecchia insomma, in maniera particolarmente grave e distorta l’atteggiamento assunto dalla Corte suprema negli ultimi decenni in materia di finanziamento della politica. E si profila una generale perdita di imparzialità delle istituzioni giudiziarie negli Stati Uniti.
Come ha detto il principale esponente di Justice at Stake, Bert Brandeburg: “ci si metta nella posizione di un giovane e ambizioso avvocato che riceve una telefonata, e una richiesta di danaro, da parte di un giudice davanti al quale egli finirà prima o poi per apparire. E ci si metta nella situazione decisamente scomoda del giudice….”. Qui si va molto oltre l’uso del danaro per fare lobbying, per influenzare le decisioni politiche. “Se il denaro influenza il legislatore, o il Governatore o il Presidente, si ottengono cattive politiche pubbliche. Ma se soldi influenzano i giudici, si ha una chiara violazione della Costituzione…. E una volta che i giudici sono stati costretti a trasformarsi in politicanti in toga nera, ci si allontana assai rapidamente da un sistema di giustizia uguale per tutti.”
E dalla possibilità – che ancora oggi, in questa tragica fase del declino americano viene ventilata – che siano in qualche modo le Corti a frenare ed in definitiva forse ad abbattere il rozzo e brutale narcisista, dal ciuffo giallo e dal mento mussoliniano, che oggi occupa la Casa Bianca. Cioè a riuscire la dove due giorni fa non è riuscito, per un solo voto, la Camera dei rappresentanti.
Giuseppe Sacco