Con la dichiarazione della propria contrarietà alla elezione di Draghi alla Presidenza della Repubblica – dichiarazione che ha accompagnato l’annuncio, ormai atteso, della rinuncia a candidarsi egli stesso – Silvio Berlusconi, ha ieri posto termine agli indugi dei giorni scorsi. Ed ha aperto una fase nuova, probabilmente destinata ad essere conclusiva per la designazione  del Capo dello Stato.

Soprattutto però, ha messo lo schieramento di centrodestra – che sino a ieri aveva celato le proprie difficoltà ad indicare unitariamente un altro candidato – nella necessità di uscire dalla propria reticenza, e fare uno o più nomi in alternativa rispetto a quello dell’attuale presidente del Consiglio. A favore del quale continua a dichiararsi ufficialmente il PD, fingendo di ignorare che tra i suoi stessi ranghi, e in misura assai più larga tra Cinque Stelle, esso incontra tenaci opposizioni.

In questa situazione, ci sarebbe da aspettarsi la proposta di nuovi nomi, se non altro per sondare le reazioni dell’elettorato. Ma ciò non avviene. O meglio, non avviene ufficialmente, ma solo all’interno di un circolo assai ristretto. Su tutti pesa, infatti, il problema di cosa accadrà del Governo il giorno in cui l’attuale Presidente del Consiglio si trasferisse al Quirinale. Ogni trattativa verte ormai non solo sulla massima carica dello Stato, ma contemporaneamente sull’accoppiata Quirinale-Palazzo Chigi. Un’accoppiata però che rischia di risultare eccessivamente stretta.

E’ noto che all’origine della nomina di Draghi c’è uno scatto di indignazione di Mattarella. Uno strappo fondato su un giudizio pesantemente negativo dell’insieme del personale partitico-parlamentare del momento, uscito dalle vergognose elezioni del 2018, e sull’incapacità ed impotenza dimostrate dall’intera categoria dei politici, professionisti a improvvisati che fossero. Come è stato detto, fu uno strappo deciso d’impulso (“Draghi, Draghi aiutaci tu!”) da Mattarella di fronte al vergognoso default della politica, da cui sono nati un Governo ed una maggioranza creati con una costrizione dei politici, non per convinzione.

E’ perciò dato per scontato che, una volta giunto sul Colle, Draghi riterrà di dover comunque garantire personalmente la direzione dello sforzo di ripresa e dinamizzazione dell’economia italiana, cioè di dover onorare l’impegno assunto in sede nazionale, e ancor più internazionale.

Da tutti gli osservatori, e ancor più dalle persone direttamente coinvolte nella vicenda, è stato giudicato probabile che, per proseguire nella propria opera, Draghi – che ha apertamente dichiarato di non aver mai pensato di poter scegliere la politica come mestiere, perché “si sceglie quello che piace” – vorrà avere alla testa del governo una persona sulla sua lunghezza d’onda, cioè un tecnico. Così, si sono da più parti fatti un paio di nomi assai significativi. Nomi che però non sono quelli di “tecnici puri”. Piuttosto, di persone prive di esperienza elettorale e parlamentare – ma non di esperienza politica.

Perché la politica è fortemente presente in moltissime attività, prima fra tutte quella che ha caratterizza tutta la carriera di Mario Draghi. Ma è presente in maniera assai particolare, caratterizzata da un’estrema sensibilità ai fenomeni economici internazionali, da un’adattabilità alla pace e alla guerra, da una grande importanza attribuita all’efficacia dell’azione e da un vero proprio rigetto, se non disprezzo, per i giochi di potere e per i tatticismi propagandistici che caratterizzano la politique politicienne, la “politica politichese. E se sarà, com’è verosimile, che sia questo tipo di esperienza e di capacità politiche che egli vorrà nella persona che assumerà la funzione che egli attualmente ricopre, l’Italia apparirà ai gruppi che oggi formano la sua maggioranza come una sorta di “Draghistan”. Talmente intollerabile da distruggerne i fragili fattori di convergenza.

Ci si può perciò chiedere se le prossime 48 ore non saranno dedicate soprattutto a prendere seriamente in considerazione l’ipotesi reciproca. Che consisterebbe nel garantire la continuità dell’attuale azione di governo favorendo l’elezione alla Presidenza non già di Draghi, ma di una personalità sulla stessa lunghezza d’onda di Draghi. O almeno con questa compatibile.

A condizione tuttavia che ciò non s’incarni in una personalità troppo forte o troppo eccentrica rispetto al tradizionale ambiente della politica italiana. E che l’elezione non avvenga con un braccio di ferro troppo estremo. Altrimenti, la corsa al Colle potrebbe provocare un nuovo strappo comparabile a quello che ha portato Draghi a Palazzo Chigi e rendere impossibile una maggioranza parlamentare e le condizioni che consentono all’attuale compagine di governare. La ricerca del futuro Presidente della Repubblica potrebbe dunque d’ora in poi consistere non già – come è stato sinora – nella ricerca di una personalità in grado di raccogliere un numero sufficiente di voti, ma piuttosto di una personalità in grado di evitare che si coagulino contro di lui un numero eccessivo di veti.

Giuseppe Sacco

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