Viviamo una stagione di gravi, profonde diseguaglianze e, nel contempo, anche per coloro che stanno o stavano meglio, quello che potremmo definire il tempo della “grande lamentazione”. Al di là delle forzature da “festa permanente” dei Billionaire, dei Papeete e relative imitazioni per chi non può permettersi tanto, molte persone, forse troppe, di ogni condizione sociale, vivono il disagio e la frustrazione di promesse mancate, aspirazioni deluse, attese sfumate, speranze spente. E non è colpa solo del virus che pure la sua parte la sta facendo ancora.
I desideri si sono dilatati oltre misura, si sono trasformati in pretese e poi nella disillusione di non poter reggere, per un oggettivo intrinseco limite che sta nell’ordine delle cose, il ritmo incalzante di un progresso che si immaginava quasi automatico ed illimitato. Chi ha creduto di invocare la “decrescita felice” per correre ai ripari e prevenire una temuta onda di riflusso che segnasse lo spartiacque tra la “modernità” ed un tempo successivo, ancora indefinibile, ha mostrato di non aver colto il nocciolo della questione.
Intingiamo volentieri i nostri pensieri, i sentimenti, le emozioni che li accompagnano in un umore nero, che, per quanto sia sofferto, a suo modo, è protettivo e confortante, più di quanto siamo disposti ad ammettere. L’orizzonte che davanti a noi percepiamo incerto ed oscuro, infatti, è anche il prodotto di quel processo di rimozione con cui ciascuno di noi pensa di liberarsi dal peso, dalla noia, dalla pena ovattata, eppure ancora pungente delle nostre mille insoddisfazioni personali, degli scacchi subiti da parte di quel “destino cinico e baro” che sembra accompagnare sempre la vita, conferendoli a questa nube, all’ entità magmatica, evanescente eppure viva di questo sentimento collettivo che , per quanto minaccioso, essendo un che di anonimo, in larga misura, ci assolve personalmente e ci sgrava.
Ora, è forse giunto il momento di cambiare segno. Anche alla politica tocca fare la sua parte. E’ tempo di costruire un equilibrio nuovo, una prospettiva ragionevole di consapevolezza comune. Abbiamo gli strumenti per remare contro la corrente “liquida” del nostro contesto civile e ricercare, sia pure risalendo a monte, approdi sicuri, su cui attestare le teste di ponte di un nuovo cammino? Ci può essere di aiuto quel puntuale modo di pensare che la politica richiede, cioè i percorsi cognitivi, l’abito mentale del “pensare politicamente”.
Il che evoca un particolare tipo di “intelligenza” una duttilità di pensiero ed una libertà di spirito che permettano di leggere anche tra le righe ed oltre, senza trattenerci alla superficie del fenomeno sociale. Insomma, si potrebbe dire che il primo compito della politica – oggi soprattutto – è quello di garantire il permanere del proprio ruolo, rivendicandone la funzione, contro la deriva populista di un’antipolitica che va ormai assumendo una postura ideologica.
Intanto, il pensare in termini politici ci segnala quanto sia importante discriminare ciò che è essenziale da ciò che è del tutto accidentale o addirittura fortuito. Si tratta di un confine sempre più frequentato, le incursioni incrociate dall’una all’altra parte si succedono incessantemente e creano un groviglio inestricabile. Afferrare il bandolo della matassa, dipanarne il filo, sciogliendo un nodo dopo l’altro, secondo la continuità di una logica sensata, esigerebbe una pazienza infinita ed altrettanta sagacia.
E’ più facile gettare sulla bilancia la spada di Brenno ed atteggiarsi ad “uomo del destino”, decisore impavido che d’un tratto incarna la volontà collettiva e, in un baleno, risolve. Senonché, la politica è come mettere una pentola d’acqua a bollire sul fuoco. Quando la temperatura raggiunge i cento gradi, all’interfaccia tra il pelo dell’acqua e l’atmosfera che sta sopra, si scatena un inferno di bolle, spruzzi e zampilli, mentre nello spessore del liquido sottostante si formano le cosiddette “celle convettive”, cioè l’acqua si muove, secondo un gradiente termico, dal basso in alto e viceversa, tramite un moto assolutamente regolare e geometrico.
Anche la politica è geometrica, ben più di quanto non appaia e pretende quella facoltà di discernimento che consenta di coglierne, appunto, le regolarità nascoste, i nessi causali, le ricorrenze significative, senza cadere nell’equivoco di scambiarla per i processi indecifrabili ed incomponibili dell’ebollizione. Questo significa anche coltivare un approccio oggettivo, pacato, riflessivo, non mediato da sovrastrutture ideologiche fuorvianti. Insomma, un metodo ispirato alla “moderazione”. Che, a sua volta, rinvia ad un lavoro di analisi delle situazioni e dei temi da affrontare che va condotto sempre in funzione dell’impegno di sintesi e di indicazione operativa cui la politica è tenuta.
Non si tratta, dunque, di un’analisi accademica o meramente e minuziosamente descrittiva, ma piuttosto orientata a cogliere quei versanti delle questioni all’esame che siano necessari ad organizzare una risposta, senza scivolare, su un piano meramente sociologico o astratto. E’ necessario  “governare”, guidare o almeno orientare i processi in corso, sapendo che ciò non avviene mai in modo meccanico, secondo gli automatismi di una cadenza pre-ordinata a monte ed inossidabile, ma piuttosto per aggiustamenti progressivi che, di volta in volta, assorbano le complessità che emergono dalle situazioni concrete.
Non si governa con gli algoritmi, né con le più sofisticate tecniche di manipolazione dei cosidetti “big data”, ma con percorsi di mediazione di alto profilo che nulla hanno da spartire con compromessi più o meno aritmetici, ma piuttosto con la capacità di cogliere, al di là degli interessi di ciascuno, quell’interesse collettivo che chiamiamo “bene comune”.
Domenico Galbiati

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