Nonostante i burocrati di Bruxelles facciano di tutto per screditare i popoli che pretendono di irreggimentare, non manca di tanto in tanto qualche segno di come l’essere europei mantenga ancora un suo fascino e una sua forza d’attrazione sul resto del mondo. Non bastano, evidentemente, né il suggerimento di non nominare mai il Natale, né quello di “non offendere nessuno” dicendo “donna incinta” anziché “persona incinta” (ma chi diavolo si dovrebbe offendere?), per sancire agli occhi degli altri il definitivo tramonto culturale dell’Occidente.

Noi stessi ne abbiamo, in primo luogo, la prova evidente nel tentativo del nostro Sud di mantenersi strettamente unito al resto d’Italia, nonostante tutte le pretese teorie di un modello mediterraneo, e di uno sviluppo che sarebbe da cercare nel quadro dell’integrazione col nord-africa. Ma è nelle periferie più estreme del pianeta che è più significativa l’attrazione dimostrata, presso popoli assai diversi dagli Europei per origine e per tradizioni, nei confronti del Vecchio continente. Addirittura nel Pacifico, dove oggi si pensa esistano solo il fascino del modello di sviluppo cinese e l’influenza culturale e politica di Pechino.

Un coriandolo dell’impero

E’ questo il caso della Nuova Caledonia, un piccolo arcipelago sito a 1.500 chilometri all’est dell’Australia, ed altrettanti a nord della Nuova Zelanda, la cui isola maggiore è Grande Terre, dalla superficie pari a circa due terzi di quella della Sardegna.

Si tratta di uno dei principali “confettis de l’Empire”, i “coriandoli” lasciati un po’ dappertutto sulla superficie del pianeta dalle due dure sconfitte subite dal colonialismo francese nel secondo dopoguerra. Ebbene proprio da quella terra lontanissima, pochi giorni fa, è venuta – a conclusione di un contorto processo decisionale che durava dal 1988, e che ha visto non uno, ma ben quattro referendum, tenutisi a distanza di vari anni l’uno dall’altro – la scelta di rinunciare alla conquista della “piena sovranità” e di continuare invece a far parte, ovviamente in un quadro di autonomia, della Francia.

Il fatto che questa rinuncia alla sovranità sia stata sancita col 96,5% di voti favorevoli contro solo il 3,5% di voti contrari indurrebbe al sospetto. Raramente le maggioranze “bulgare” sono spontanee manifestazioni della volontà popolare. Ma nel caso della Nuova Caledonia essa si spiega col fatto che il partito indipendentista indigeno, il FLNKS – in cui si riconosce la maggioranza dei kanak, gli aborigeni del luogo – aveva invitato a non andare a votare. Forse nel timore che si ripetesse il risultato negativo (anche se di misura piuttosto stretta) di un voto precedente, ponendo così una pietra tombale su ogni possibile futura aspirazione indipendentista. O forse – si può più logicamente pensare – per una forma di attaccamento al modello europeo ormai affermatosi nell’arcipelago, dove i due terzi della popolazione sono cattolici, e che ha il più alto livello di vita di tutti i possedimenti oltremare della Francia, e il più vicino a quello della metropoli. L’affluenza, su circa 185.000 elettori, è stata infatti solo del 44 %.

In realtà è probabile che gli stessi leader locali che agitano la bandiera dell’indipendentismo si rendano conto del fatto che il loro peso politico resterà più forte se l’arcipelago resterà – come oggi è – un’estrema propaggine della Francia che consente a Parigi di essere presente nell’Indopacifico, e di aspirare ad un ruolo nell’area dove si combatte attualmente la “struggle for Asia”.

Ma questa è chiaramente una prospettiva che sconta che, per il futuro sia immediato che a medio termine, un clima di guerra; cioè una situazione in cui una Nuova Caledonia indipendente sarebbe un fuscello rapidamente ridotto a campo di battaglia, a un bivacco per i manipoli anglosassoni o cinesi, e comunque a selciato della storia. Mentre al contrario, potrebbe beneficiare di una certa protezione nel caso di una eventuale riammissione di Parigi nell’alleanza anticinese nel Pacifico, e forse – molto forse – in quello di una neutralità francese derivante dall’attuale forzosa esclusione della Francia dall’AUKUS.

Questo clima di guerra imminente spiega peraltro che il ruolo secondario giocato in questa occasione la possibilità, ancora non sufficientemente chiarita di uno sfruttamento delle risorse estraibili dai fondali oceanici; fondali nella cui spartizione la Francia è riuscita – proprio grazie ai “confettis de l’Empire” –ad impossessarsi di una superficie grande quanto quella dell’Unione Europea, con tutti i sui attuali ventisette membri.

Un languore e un lungo addio?

La partita, che appare chiusa sul piano istituzionale e politico-culturale, nel senso che quel piccolo lembo d’Asia ha riaffermato la propria preferenza per restare parte dell’Europa, non è però ancora completamente giocata. Forse si è trattato solo di un modo per rendere più lungo un addio che le tendenze demografiche potrebbero un domani dimostrare inevitabile. A settembre 2019, infatti c’erano sull’isola 271.407 abitanti, ma tra questi quelli nati nell’arcipelago erano il 78%, contro il 75% solo cinque anni prima.: uno scarto piuttosto rilevante per un periodo così breve.

Ciò dovuto non tanto ad un accrescimento naturale della popolazione autoctona, che partecipa anch’essa di un generale languore della fertilità: 1,9 figli per donna nel 2019 contro i 2,2 del 2014. Analogamente, la differenza tra nascite e decessi è stata di 13.000 unità, rispetto alle 15.000 del 2009 -2014. Un languore parallelo a quello politico determinato dall’interminabile negoziato, dall’estenuante tira e molla che dura dagli anni ‘80 tra appartenenza europea e localismo esotico. Nonché al languore, negli cinque anni precedenti la pandemia, dei prezzi del Nichel, principale esportazione dell’isola.

Anche più significativo è il quadro migratorio.  E infatti, mentre cala rapidamente il numero degli arrivi (17.300 tra il 2014 e il 2019, contro i 22.400 tra il 2009 e il 2014), le partenze sono negli stessi anni raddoppiate. Il saldo mostra un deficit di 10.300 persone tra il 2014 e il 2019, cioè 2.000 partenze nette all’anno, contro 1.600 arrivi netti annui tra il 2009 e il 2014: un saldo migratorio che ricorda quello dei neo-laureati italiani.

La Nuova Caledonia ha dunque votato per restare francese. Una scelta logica in una situazione di anteguerra. E una scelta che garantisce a Parigi una presenza politico-militare – fosse anche di mero disturbo – in un’area che sarà inevitabilmente investita dallo scontro tra Pechino e l’AUKUS, la “nuova Nato” creata nel Pacifico per spezzare l’ascesa economica della Cina; nonché per quel che riguarda le risorse dei fondali oceanici, di cui i media che costruiscono l’opinione pubblica occidentale parlano pochissimo. Eppure, il debole dinamismo economico dell’arcipelago, unito alle apprensioni e all’incertezza sul futuro potrebbero alla lunga essere più forti di qualsiasi scelta politica e di qualsiasi legame istituzionale. E’ una lezione che viene da molto lontano, ma che faremmo bene a osservare con qualche attenzione.

Giuseppe Sacco

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