Questa volta non sarà come per le crisi del 1992 o del 2011 che hanno visto l’Italia nell’occhio del ciclone ma sempre capace in qualche modo di salvarsi. Stavolta siamo giunti alla resa dei conti. Siamo considerati non solo l’epicentro, insieme alla Cina, del coronavirus ma soprattutto il Paese a maggior rischio di contagiare il sistema finanziario globale. Si deve quindi riflettere sugli errori compiuti, sia come Paese che come area politica europeista e alternativa alla destra nella quale si riconoscono i Popolari, per definire una strategia adeguata alle sfide e nel contempo capace di riallacciare un legame di fiducia con una classe media che da un buon decennio si sente delusa e tradita dalla politica e per questo sempre più imprevedibile elettoralmente.
L’epidemia farà il suo corso, ma la sua rappresentazione mediatica ha ormai innescato dei processi irreversibili che non si può più fingere di ignorare. Il modello di globalizzazione per come l’abbiamo conosciuto in questo primo quinto di secolo è giunto al capolinea. Lo stesso vale per la completa deregulation del settore finanziario. Gli accordi bilaterali fra Stati e/o intere aree economiche, con intese ad hoc per scongiurare il dumping sociale, favorire la tutela del lavoro, il rispetto dell’ambiente e lo sviluppo sostenibile sono destinati a soppiantare l’attuale modello mercatista basato sul primato dell’export e sulla compressione del costo e dei diritti del lavoro.
Il sistema finanziario non potrà che vedere una contrazione o una distruzione delle molteplici bolle speculative il cui scopo in questi anni è stato quello di sottrarre e trasferire ricchezza e beni dai più per concentrali nelle mani di una ristrettissima élite transnazionale con gli effetti deflattivi che si possono ammirare. Resta da vedere se tale aggiustamento avverrà per decisione politica o per eventi di forza maggiore di natura sistemica, sociale o militare.
L’enfatizzazione dell’impatto del coronavirus (nonostante non sia l’epidemia più devastante che si ricordi) sulla vita quotidiana e sull’economia sta favorendo un ritorno alla realtà, tra la fretta e il panico, anche fra quanti si sono dimostrati più sordi al messaggio ben udibile in tutto l’Occidente, lanciato dalla classe media, almeno a partire dal 2016, che la misura era colma.
Tuttavia non sembra affatto scontato che questa presa d’atto riguardi anche la Commissione Europea e i tecnicismi a cui l’UE ha ritenuto di consegnarsi. Con il senno del poi si può constatare una catena di errori, da parte di Bruxelles e da parte del nostro Paese, che inizia dal 2011, con l’opzione “commissariale” di Mario Monti che prevalse sulla scelta democratica delle elezioni anticipate, e arriva sino a quel surreale braccio di ferro del 2018 tra il governo gialloverde e la Commissione europea sul deficit al 2,04 anziché al 2,4%.
Se oggi l’Italia giunge debilitata ad affrontare questa nuova emergenza indotta dal coronavirus, lo si deve anche a quelle non lungimiranti scelte che hanno compromesso lo sviluppo del Paese nello scorso decennio. La cosa più grave è che sinora non è emerso alcun segnale di cambiamento. L’esiguo margine di flessibilità (+0,4%) concesso all’Italia, oltre ad essere del tutto inadeguato a far ripartire il Paese, e incredibilmente vincolato alle sole spese sanitarie straordinarie per il contrasto dell’epidemia, è frutto di una mentalità ragionieristica. Non si tratta di mercanteggiare sui numeri, occorre invece concentrarsi sugli obiettivi. Il messaggio da dare, a livello nazionale ed europeo, non è la piccola deroga alle Regole Intangibili, bensì quello che le istituzioni faranno tutto ciò che occorre per evitare il tracollo dell’economia e per sostenere la ripresa della domanda interna.
L’Eurozona dispone dei mezzi per farlo, la BCE è pronta, ciò che difetta è la volontà politica. Si profila forte il rischio che l’Europa quando si muoverà, lo farà di nuovo in ritardo e in misura inadeguata. Anziché alla terapia d’urto per impedire che la terza economia dell’UE cada in uno stato di profonda crisi economica e finanziaria, destabilizzante per l’economia mondiale, Bruxelles sembra più interessata a come approfittare dell’attuale emergenza per “disciplinare” l’Italia: siamo ormai non lontani dal fatidico 140% del rapporto debito/PIL, oltre il quale potrà scattare insindacabilmente il fondo salva-stati (MES) riformato a decretare la necessità di intervento subordinata a una ristrutturazione del debito a carico di famiglie e imprese. Come dire il colpo di grazia, anziché l’ancora di salvezza.
Di fronte a ciò in questi anni vi è stato il silenzio e la complicità dell’area politica riformatrice, europeista e anti-sovranista. L’attuale emergenza ci impone la necessità di una decisa autocritica. Per anni lo schieramento in cui si riconosce il mondo cattolico-democratico e popolare, è stato remissivo, se non complice della deriva ordoliberista e mercantilista dell’Europa. L’austerità andava soffocata nella culla, il Patto di Stabilità doveva essere rispedito, sdegnosamente, al mittente perché rispondente agli interessi del solo 1% della popolazione, della billionaire class, i miliardari, e capace di dissestare il tessuto economico e sociale di intere grandi nazioni e in definitiva di scavare la fossa all’intera UE.
Come prima cosa il PD, e l’intero centrosinistra sono tenuti a chiedere scusa al Paese, in particolare ai ceti sociali intermedi e lavoratori e a tutti i loro potenziali elettori. Quindi servono leader nuovi e credibili, non necessariamente giovani e inesperti (come dimostra il caso del quasi ottuagenario Bernie Sanders). Va inaugurata una nuova stagione del centrosinistra, con il contributo di tutti, fondata su due grandi idee-guida.
La prima è quella di smettere una volta per tutte di considerare il debito come una colpa quando invece costituisce una delle due vie maestre (la seconda rimane la guerra) per uscire da enormi fasi recessive come quella in cui ci stiamo addentrando.
L’altra grande direttrice è l’Europa. I fatti stanno smascherando come un imbroglio lo pseudo-europeismo che è andato per la maggiore, secondo cui il rispetto dei vincoli europei (principale causa di implosione dell’Europa e di ascesa dei populismi) sia professione di europeismo mentre la critica all’austerità sia sintomo di euroscetticismo o addirittura di sovranismo. Le cose stanno esattamente al contrario. Alla crisi attuale non si risponde con le deroghe all’austerità bensì con la sua eliminazione, che permette di rimettere in moto il percorso verso una completa unità economica e istituzionale in tempi certi e ravvicinati. Se troveremo questo coraggio, potremo riannodare i fili con l’elettorato che naturalmente guarda al campo riformatore e contribuire con i fatti a raccogliere quell’appello alla fiducia e all’unità di cui, come ci ha ricordato il presidente Mattarella, il Paese necessita in questa delicatissima fase.
Giuseppe Davicino
Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione i Popolari del Piemonte ( CLICCA QUI )