E’ difficile restare lucidi e razionali quando una sentenza della Corte Costituzionale, come ha scritto l’amico Domenico Galbiati, “altera profondamente il quadro legislativo fin qui vigente a tutela della intangibilità della vita” ( CLICCA QUI ).
E’ inutile sentirci dire che non si parla male di Garibaldi. La Corte Costituzionale in materia di eutanasia ha sbagliato e continua a farlo perché vittima di una sindrome ideologica.
Si tratta adesso di valutare quello che ancora è possibile fare per dare al fine vita un assetto legislativo equilibrato, in grado di tenere conto, cosa che non ha fatto la Corte, di quell’insieme di complessità che definiscono una materia così tanto delicata.
Inevitabile la necessità di superare quella che è una nuova sconfitta per il concetto della vita e della sua tutela e che sta alla base del pensiero dei padri costituenti e della crescita del pensiero e della cultura mondiale attorno a questi temi.
La Corte, ma ci torneremo tra breve, ribadisce la necessità di un intervento del legislatore. A questo dobbiamo lavorare nella consapevolezza che le forze politiche e culturali animate da un’altra visione della vita e dell’essere umano sono già al lavoro.
L’iniziativa cui hanno dato corso numerose organizzazioni cattoliche impegnatesi su questo problema in maniera ragionevole, inclusiva e collaborativa deve andare avanti. Dobbiamo uscire dal torpore della ineluttabilità, dall’idea che si conducano battaglie destinate solo alla sconfitta e imporsi di lavorare sul piano politico e legislativo, oltre che su quello della educazione e della formazione.
Le relazioni avviate con tutte le forze politiche presenti in Parlamento debbono essere ulteriormente proseguite. La decisione della Corte richiede che si giunga ad un intervento legislativo organico ed equilibrato, a partire da ciò che riguarda la tutela degli operatori sanitari i quali non possono essere costretti ad ignorare la loro missione che è quella di occuparsi della vita.
L’obiettivo, come dichiara a La Stampa Mario Giro deve essere quello di tradurre in termini legislativi la necessità di riscoprire “un supplemento di umanità di fronte al dolore degli altri” ( CLICCA QUI ).
Quanti sono interessati, che siano cattolici o meno, ad occuparsi dell’esistenza degli altri esseri umani e delle loro relazioni debbono impegnarsi politicamente, cosa che ovviamente non può essere ridotta alla questione della formazione di un nuovo partito, di cui è evidente ogni giorno di più la necessità.
Nel caso specifico, si deve stare ai fatti. I fatti ci raccontano di una Corte Costituzionale finita su questa questione, e sin dagli inizi, in una grave contraddizione. Poi, non è riuscita ad uscirne. Anzi, con la sentenza di ieri, la contraddittorietà è emersa in materia ancora più evidente.
La Consulta non si è limitata a giudicare l’incostituzionalità dell’art. 580 sul fine vita, ma ha posto il termine perentorio del 24 settembre al Parlamento facendo già intravedere come altrimenti sarebbe intervenuta.
Dove vivono questi alti magistrati, sulla Luna? Non vedono le condizioni oggettive di difficoltà emerse con i risultati del 4 marzo del 2018? Non hanno letto i giornali su tutte le vicende del Governo giallo – verde e la paralisi di fatto delle due Camere a seguito di tutto ciò che è accaduto dopo? Non risulta, ma attendiamo smentita, che tali perentori termini siano mai stati fissati in precedenza al principale potere della Repubblica che, non a caso, definiamo di tipo parlamentare.
Questo significa che la Corte non dovrebbe mai intervenire di fronte ad una inattività da parte dei legislatori? No di certo. Può farlo semplicemente, però, cassando una legge senza pretendere poi di dettarne la riscrittura e, di fatto, sostituirsi a qualcun altro.
La verità è che questa Corte è il frutto di quella stagione ideologica, di cui per primo ha finito per pagare il conto proprio il Pd, messasi all’inseguimento della cultura dell’individualismo sfrenato e dei diritti parziali, molte volte spacciati per “ civili”, e finendo per confondere la cosiddetta autodeterminazione del singolo con l’espressione più alta della libertà.
Nella sua ordinanza 207/ 2018 ( CLICCA QUI )si legge dell’astrusa distinzione tra il suicidio, “ atto intriso di elementi di disvalore, in quanto contrario al principio di sacralità e indisponibilità della vita in correlazione agli obblighi sociali dell’individuo, ritenuti preminenti nella visione del regime fascista” e il principio personalistico enunciato dall’art. 2 ( della Carta costituzionale, nda)– che pone l’uomo e non lo Stato al centro della vita sociale – e di quello di inviolabilità della libertà personale, affermato dall’art. 13; principi alla luce dei quali la vita – primo fra tutti i diritti inviolabili dell’uomo – non potrebbe essere «concepita in funzione di un fine eteronomo rispetto al suo titolare». Di qui, dunque, anche la libertà della persona di scegliere quando e come porre termine alla propria esistenza.
Ma che cosa intende l’estensore di queste frasi per “ principio personalistico”? Ma sa di cosa parla? Non sa neppure di quanto stravolga il pensiero di Emmanuel Mounier. Siamo di fronte ad una clamorosa manipolazione di un concetto per trasformarlo nel suo contrario.
La “ manipolazione” concettuale è evidente anche quando l’autodetereminazione in materia di suicidio viene equiparata a trattamento terapeutico e, addirittura, a indicazioni che, a suo dire, verrebbero dalla Carta europea dei diritti dell’uomo. Nell’Ordinanza venne infatti scritto: “ Il diritto all’autodeterminazione individuale, previsto dall’art. 32 Cost. con riguardo ai trattamenti terapeutici, è stato, d’altronde, ampiamente valorizzato prima dalla giurisprudenza e poi dal legislatore, con la recente legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), che sancisce l’obbligo di rispettare le decisioni del paziente, anche quando ne possa derivare la morte. La conclusione sarebbe avvalorata, inoltre, dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Essa avrebbe conosciuto una evoluzione, il cui approdo finale sarebbe rappresentato dall’esplicito riconoscimento, sulla base degli artt. 2 e 8 CEDU (che riconoscono e garantiscono, rispettivamente, il diritto alla vita e il diritto al rispetto della vita privata), del diritto di ciascun individuo «di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà”.
Che una iniezione letale possa essere considerata un trattamento terapeutico è sicuramente cosa che avrebbe apprezzato il dottor Mengele.
Queste citazioni ci fanno già capire il tenore della sentenza che seguirà le anticipazioni di ieri.
Giancarlo Infante