La forma non puo’ essere un recipiente standard e rigido in cui i contenuti si accumulano, ma lasciando qua e là lo scarto di spazi vuoti. A loro volta, i contenuti non si incastano esattamente l’uno nell’ altro come fossero mattoncini del Lego, quindi, non sempre danno luogo alla formazione di una figura geometrica perfetta, cui il contenitore corrisponda come fosse una pellicola avvolgente. Bisogna farli crescere insieme se vogliamo ottenere una formazione compatta.

Senonché, la lingua batte dove il dente duole e, per un verso o per l’altro, i nostri discorsi finiscono per essere calamitati, se pur non lo volessimo, dall’idea del “centro”, quasi si trattasse di una mitica terra promessa dove le messi biondeggiano, pronte per la mietitura.

E se fosse, invece, l’isola che non c’è?

Proviamo a buttarla in soldoni sul piano dei contenuti e, ad esempio, vediamo di chiarire, fuor di metafora, in termini di concretissime linee d’azione, cosa significhi “mettere al centro” – e dagli ….ma qui in altro senso – la persona, la famiglia, gli ultimi, i candidati all’emarginazione, allo scarto di cui parla Papa Francesco.

Proviamo a dire, insomma, cosa vorremmo farne davvero, anzitutto sul piano della giustizia sociale, di questo Paese, senza guardarlo con occhiali prismatici che precostituiscono ad arte una percezione visiva piuttosto che l’altra, comunque deformando o almeno interpretando pregiudizialmente la realtà.

Proviamo a superare, almeno in questa fase ed almeno sul piano metodologico – salvo poi tornarci, per carità, se sarà il caso – l’ossessione del “centro”.

Al punto di non scandalizzarci – lo dico un po’ paradossalmente – se dalla ricognizione attenta e paziente che faremo dovessero emergere spunti – faccio solo un esempio: un ragionato e ragionevole recupero di un criterio meritocratico nel campo dell’ educazione e degli studi – che, a prima vista, sanno di destra.

Senonché, dobbiamo abituarci a lavorare in modo collegiale e, del resto, questo progetto, anzi la sua declinazione “programmatica” puntuale non può essere l’opera solitaria di qualcuno.

Bisogna che ognuno proponga, aggiunga, emendi o sottragga, integri, precisi o puntualizzi: insomma dobbiamo sforzarci di essere una “comunità di pensiero” come premessa all’azione comune.

Intanto, partirei da questa frase del Cardinal Martini: “Sogno una città che sia luogo adatto al riconoscimento di sè”.
Non sono forse – per molti aspetti ben più degli adulti e degli stessi anziani – i giovani, in generale i minori, gli adolescenti in particolare, quelli che hanno maggiore difficolta’ a “riconoscere se stessi”, in un contesto civile scomposto come l’attuale? Non e’ inaccettabile l’ampiezza del fenomeno dell’abbandono scolastico? Non è indecente che vi siano ancora sacche importanti di “povertà educativa”?

Come è possibile che in una città come Milano l’apposito programma di Fondazione Cariplo incroci 20.000 bambini in condizione di povertà assoluta?

Ogni bambino che nasce porta in dote all’umanità almeno cento miliardi di neuroni ed un numero spropositato di sinapsi: un patrimonio cognitivo immenso. Quanta parte ne buttiamo?

Se ragionassimo in termini meramente naturalisti – e ci sbaglieremmo di grosso – ma comunque fossero non neuroni, bensì chip al silicio ce ne disferemmo con altrettanta facilità o saremmo trattenuti dalla considerazione del loro valore commerciale?

Insomma cominciamo a mettere in fila, una dopo l’altra, le cose che possono comporre un grande piano di investimenti, articolato, a più dimensioni, sulle generazioni più giovani, raccogliendo, a proposito della scuola, ad esempio, e della sua funzione anzitutto “educativa”, la suggestione che ci ha offerto Zamagni lo scorso 3 luglio all’Istituto Sturzo.

Domenico Galbiati

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