Nell’articolo di Nino Giordano -del 27 gennaio u.s.- su Giorgio La Pira e l’amicizia ebraico cristiana- si riporta una affermazione di Maria Angela Baroncelli per la quale il professore “non aveva[…]grandi capacità oratorie”.

Avendo conosciuto e frequentato assiduamente il professore negli ultimi 7 anni della sua vita (ne ho dato testimonianza nel volume La Pira e i giovani. Rondini in volo  verso la primavera  di papa Francesco, SEF, Firenze, 2016) mi sento in dovere di riprendere il discorso per confutare questa affermazione, peraltro marginale nel contesto dell’articolo.

Invero il linguaggio di La Pira era adattivo, poetico ed ottimista; mi spiego.

Nel parlare in pubblico, ricorreva anche a una gestualità di universale comprensione (del resto, osservo, i recenti studi etologici e psicologici, danno sempre più rilevanza al linguaggio gestuale nella relazione tra persone). Dossetti ebbe già a notare come la mimica di La Pira oltrepassava le parole e come inoltre la sua personalità era pulita, luminosa, di un colore bianco che emanava da tutto il suo essere. Mi ha sempre colpito questo suo linguaggio, scritto e parlato. A mio modo di vedere aveva un registro comunicativo particolarissimo e “adattivo” nei confronti degli interlocutori del momento. Il saper cambiare modalità espressiva a seconda di chi si ha davanti è sicuramente una capacità che denota grande intelligenza e in un certo senso genialità. Quando si rivolgeva ai meno acculturati, ai semplici, usava un linguaggio piano, scorrevole, semplice, di immediata comprensione. Quando invece il discorso era rivolto agli uomini di cultura, ai politici, agli ecclesiastici, ai potenti, il linguaggio si faceva denso, articolato, ricco di subordinate e incisi, di parentesi, di sottolineature ed evidenziazioni (le virgolette). In entrambi i casi era costruito aristotelicamente, per punti. Era infatti un aristotelico e costruttori di architetture aristoteliche erano due personaggi che ricorrevano spesso anche come tali nei suoi discorsi: il giurista romano Gaio e san Tommaso, il quale partendo dalle Scritture e interpretando sant’Agostino estese l’impianto aristotelico alla teologia. Entrambe le figure accompagnarono le sue riflessioni per tutta la vita.

Il professore era quindi capace di mettersi nei panni di chi lo doveva ascoltare o leggere, partiva dal concetto che magari non sapeva niente dell’argomento e aveva solo lui come fonte di informazioni. Cercava di essere chiaro. Per usare concetti del marketing, cercava di mettersi nei panni del cliente. Era, mi pare di poter dire – e se ne può trovare conferma nei filmati giunti fino a noi, reperibili anche su YouTube– una sorta di anticipazione verbale di PowerPoint, cioè il programma di presentazione di Microsoft. I concetti erano spiegati infatti per bullet point. Concentrava cioè le informazioni principali in punti o titoli, e faceva largo uso di punti chiave, liste numerate e grassetto. Schematizzava il più possibile, isolava i diversi argomenti e dava loro una sequenza logica.

Ma nel linguaggio del professore apparivano spesso immagini poetiche, che trovavano radici nei testi biblici e che si riferivano anche e soprattutto alla natura (il creato): il volo degli uccelli migratori, lo scorrere dei fiumi, la navigazione, i porti, la barca, l’oceano cosmico, la primavera, la fioritura, le messi, la mietitura, l’alba, la lotta tra tenebre e luce, le stelle, il pianeta, ecc. Questa dimensione poetica andrebbe approfondita. Certamente fu influenzato anche dall’amicizia mai interrottasi dagli anni messinesi con Salvatore Quasimodo, cui lo accumunavano l’amore per la poesia, la fede e la ricerca di Dio. Scrivendogli definiva la poesia come un grimaldello che apre le mistiche case dell’anima e coglie il palpito invisibile delle cose visibili. La sua “poesia”  (anche nello sperare un mondo giusto, secondo Isaia) lo facilitò nei rapporti con personaggi come Senghor e addirittura Ho Chi Minh.

Sovente sapeva essere anche ironico. Ma non era mai una ironia offensiva o sminuente l’altro, non era derisione, era un sorriso angelico di fraternità. Papa Francesco da Firenze il 10 novembre 2015 ha significativamente detto: «l’umanesimo cristiano […] stabilisce tra ogni essere umano una fondamentale fraternità […] e fornisce ragioni […] per l’allegria e l’umorismo, anche nel mezzo di una vita tante volte molto dura». La Pira mai usava espressioni negative verso qualcuno. Con i Proverbi, diceva «benedetto chi benedice, maledetto chi maledice» e con Luca (6,37) «non giudicate e non condannate». E al massimo, se non era convinto della persona, diceva di qualcuno «fasullo». Mai pettegolava.

La Pira non indulgeva al pessimismo e il suo vocabolario esprimeva speranza, infatti il suo non conosceva il pessimismo: come detto parlava solo con espressioni positive e mai negative. La negatività trovava dimora in una sola frase: «nonostante tutto». Era infatti un consapevole ottimista. E questo, nel colloquiare, lo faceva appunto trasparire nel suo sorriso.

Non era mai supponente, era sempre una persona che spiegava con umiltà il suo punto di vista che non imponeva, ma suggeriva. Il suo motto, con san Paolo, era: spes contra spem. «Egli (Abramo) ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza» (san Paolo, Lettera ai Romani, 4,18). Ciò a significare che anche quando la realtà porta a pensare che tutto è perduto resta piena la fede in un futuro migliore.

In conclusione: un vero attuale Maestro di linguaggio anche per tutti i politici che vogliono essere inclusivi e fare squadra a servizio di questa nostra umanità sofferente.

Carlo Parenti

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