Il 20 settembre voterò NO al referendum che dovrebbe ratificare il “taglio dei parlamentari”, insieme ad Alberto Asor Rosa, Gianfranco Pasquino e Massimo Cacciari. In passato ci siamo trovati d’accordo poche volte.
Invece con Gustavo Zagrebelsky ho votato NO al referendum Renzi. Ma Zagrebelsky ricorda che in passato è stato dell’opinione che fosse utile sfoltire un Parlamento “pletorico”, e spiega perché ha cambiato opinione: il referendum del 20 settembre è ”una diatriba tutta politica” attorno all’obiettivo dei sovranisti: cancellare il pluralismo e la centralità del Parlamento, perno delle democrazia rappresentativa.
Per quanto mi riguarda, quando si trattava di votare referendum che riguardavano la Costituzione e il sistema elettorale, ho sempre fatto riferimento al “contesto politico” e agli “obiettivi” dei promotori delle riforma, più che alle motivazioni propagandate. Così è stato nel ’91 con il referendum Segni, quando il Sì raccolse più del 90% dei voti (e io avevo votato NO); così nel 2006 con il referendum Berlusconi e poi nel 2016 con il referendum Renzi. Quei referendum sono stati respinti dagli elettori, ma per entrambi era previsto un plebiscito. Qualche volta Davide sconfigge Golia…
D’altra parte, per entrambe le questioni, riforma della Costituzione e riforma del sistema elettorale, una lezione ci viene dalla storia della Repubblica, dalla sua complessità e dalle sue contraddizioni, oltre che dall’irrompere dell’imprevisto. Ma il prossimo 20 settembre la democrazia è nella trappola dell’election day come ha scritto Michele Ainis in un magistrale articolo (su “Repubblica” del 22 agosto): il voto di alcune Regioni, che registreranno una più alta partecipazione elettorale, condizionerà l’esito di un referendum nazionale che sarà caratterizzato dalle astensioni; mentre il voto sul referendum “influirà negativamente sul voto per i governatori delle Regioni”.
Vi faccio una rapida rassegna storica. Per cinquant’anni, la centralità della DC si è consolidata con il sistema “proporzionale”: la politica delle alleanze, espressione del pluralismo e perno del “centrismo degasperiano”, il 18 aprile del ’48 ha sconfitto Togliatti e il “frontismo” socialcomunista. Erano gli anni in cui l’Assemblea Costituente approvava la Costituzione, senza una radicalizzazione della lotta politica; erano gli anni della conventio ad excludendum, il mondo era diviso dalla “guerra fredda”. In quella fase anche le sinistre facevano riferimento al “proporzionale”, garanzia di libertà, come ha certificato l’opposizione alla proposta democristiana del ’53: per la DC il premio di maggioranza doveva rafforzare l’alleanza centrista e chiudere ogni ipotesi di apertura all’estrema destra, allora in espansione nelle amministrative del Sud. Per le sinistre, che hanno impedito alla coalizione centrista di superare il 50% dei voti, era una “legge truffa”, minaccia per la Costituzione.
In realtà, proprio in quegli anni il “proporzionale” è stato esteso alle elezioni comunali (in precedenza regolate con un maggioritario) per rendere strategica la “politica delle alleanze” anche negli enti locali e favorire lo scongelamento delle “due chiese” (oggi si direbbe “dei due poli”): quella della DC al centro e quella del PCI sulla sinistra. Il proporzionale ha rafforzato l’autonomia dei socialisti, favorendo la transizione dal centrismo al dialogo con loro: prima alle “convergenze parallele” e al centro-sinistra, poi alla “strategia dell’attenzione” anche nei confronti dell’opposizione comunista (che era al governo delle Regioni rosse) e alla “solidarietà nazionale”.
Chi critica la Prima Repubblica insiste sulla questione dell’instabilità dei governi, ma lascia in ombra l’importanza degli straordinari mutamenti dell’orizzonte politico e dei “contesti” avvenuti in quegli anni. L’Italia è radicalmente cambiata: è cresciuta economicamente e politicamente, e la democrazia si è consolidata.
Chi non fa questa considerazione non può comprendere il pensiero di Aldo Moro, “di crescita si può anche morire”; e neppure una sua riflessione che continua ad avere importanza: “Se non recuperiamo il senso del dovere… la stagione dei diritti potrebbe diventare effimera”. Chi si rinchiude in un pregiudizio sul “regime democristiano” mette la testa sotto la sabbia per non riconoscere che gli anni della “centralità democristiana” non sono anni di ombre, di immobilismo…
D’altra parte la storia ci ricorda che “niente dura sempre”. E Foscolo ha scritto che “il tempo cancella sin le ruine…”.
Con il tempo, il primato elettorale della DC si è logorato per effetto di vicende e di mutamenti radicali che non sono imputabili alle istituzioni ma in qualche caso alle stesse decisioni della politica. D’altra parte è noto lo scetticismo di Moro nei confronti di chi proponeva, a ogni crisi politica, una revisione costituzionale. Eppure nel Congresso del ’76 prevale nella DC, anche se di misura, la proposta di eleggere direttamente in Congresso il segretario del partito, quasi a prefigurare una riforma presidenziale. Ma venne eletto Zaccagnini.
I cambiamenti qualche volta sono prodotti dalla politica. Il più delle volte, mettono alla prova la politica, e in particolare i responsabili del governo. Per questa ragione la centralità della DC è stata messa alla prova, più che dalle opposizioni, dalla crisi finanziaria dello Stato, alimentata dal welfare, da contrasti sociali dovuti anche alle riforme, dall’amministrazione del potere e infine dall’esplosione della “questione morale”.
Tuttavia le grandi trasformazioni, e in particolare quelle che hanno che hanno sconvolto l’orizzonte internazionale (la fine dell’URSS, la rivoluzione cinese), hanno messo alla prova gli equilibri “fondati sulla minaccia nucleare”, e in Italia tutto l’arco dei partiti. Per la DC, penso alla “secolarizzazione della società” e al referendum sul divorzio del ’74; per il PCI alla caduta del Muro di Berlino, ma anche alla fine del “sistema fordista” e al dilagare della “società dei due terzi”.
Nella Dc si rafforzarono, negli anni ’70, le correnti di chi pensava che il declino elettorale e politico della “centralità” si potesse frenare con riforme elettorali e istituzionali che guardavano il modello gollista: elezione diretta del Presidente e Parlamento eletto con un sistema maggioritario a doppio turno, per costringere destra e sinistra a convergere sul centro, che restava ”ago della bilancia”. Su questo modello istituzionale concordarono in seguito anche movimenti che facevano riferimento alla rivista della FCI, “Ricerca”. Da questo movimento provengono alcuni dei nomi più noti tra quelli che nel ’90 sosterranno Segni e le sue iniziative referendarie (Ceccanti, Parisi), oltre alle ACLI di Bianchi e Scoppola, che poi avranno qualche dubbio…
Nel PCI l’apertura al maggioritario e alla strategia referendaria è venuta dal laboratorio ideologico delle Frattocchie. Risale a quella stagione la mia polemica sui giacobini che aprono la strada ai bonapartisti, su un “centralismo democratico” che approda al presidenzialismo.
Provocano questo radicale cambiamento del “contesto”, questo mutamento di strategia, la tragica fine di Aldo Moro e la improvvisa morte di Enrico Berlinguer. Il declino del “compromesso storico” come riferimento della politica comunista, è tuttavia reso irreversibile dalla decisione socialista di fondare la sua strategia sulla “Grande riforma”: per il PCI, ormai diventato PDS, “sono cambiate le condizioni”: la prospettiva politica della sinistra non è più la solidarietà nazionale con la DC, ma l’alternativa democratica con il PSI.
Il nuovo gruppo dirigente del PCI (Occhetto, D’Alema, Fassino) si era convinto che con un sistema elettorale maggioritario, che porta al bipolarismo (con un polo di destra e uno di sinistra) e in prospettiva al presidenzialismo, si poteva realizzare la “democrazia compiuta” e costruire la “democrazia governante”. E avviare la dissoluzione della centralità della DC costringendo gli elettori cattolici a scegliere “da quale parte stare”.
Restava senza risposta la questione della leadership di questa svolta storica. L’egemonia, pensava la nuova generazione del PCI/PDS, col tempo toccherà a noi… Però se non si scioglieva questo nodo, la Grande riforma e l’alternativa di sinistra restavano un sogno: il PSI non avrebbe mai riconosciuto una primogenitura ai comunisti, anche perché dipendeva da Craxi l’apertura che attendevano dall’Internazionale socialista alla domanda di adesione dei comunisti italiani alla casa dei riformisti.
Ho trovato una traccia di questo profondo cambiamento del “contesto politico” in un’intervista che mi fece “Rinascita”, settimanale del PCI e poi del PDS, nella primavera del ’90. Il titolo era eloquente: PCI, attento al bonapartismo. Sostenevo che il presidenzialismo è una scelta di destra, che pone al centro della politica un premier, non il Parlamento… Una riforma che svuoterà il ruolo dei partiti, una scelta oligarchica, che parte da un’analisi sbagliata, secondo la quale la crisi della democrazia dipende dal funzionamento delle istituzioni, e non dal rapporto tra partiti e società”. “Con riforme di questo tipo – continuavo – che rappresentano un cedimento alla strategia di Craxi”, in competizione con De Mita per la guida del governo, per il potere, “si ridurrà l’area della partecipazione dal basso e crescerà la crisi della democrazia”. Era una provocazione: “Una politica giacobina, che accetta come inevitabile lo sbocco bonapartista”.
Alle domande che riguardavano la probabile reazione della DC, avevo risposto: “Ci saranno due possibili reazioni: quella di chi proporrà la costruzione di un blocco moderato, che abbia al centro la DC, per rallentare, non contrastare, la strategia socialista; e quella di chi si preparerà all’alternativa rafforzando il radicamento popolare della DC, come polo riformista”. Ma “quando l’alternativa sarà non solo predicata, ma anche praticata, si delineeranno anche due tendenze che riguarderanno la questione istituzionale: quella presidenzialista e quella parlamentare”. E tutto sarebbe diventato più complicato, specie per la sinistra.
La settimana dopo Alberto Asor Rosa, mi rispose delineando l’obiettivo politico del PCI. Questa la sintesi. “Bodrato ha sostenuto posizioni che contengono rilevanti motivi di interesse. Ma cosa comporta, la Repubblica presidenziale proposta da Craxi se non la realizzazione della Seconda Repubblica?” La polemica sul passaggio dei comunisti sotto le bandiere del presidenzialismo, “per quanto ingiusta, si deve riconoscere che ha una pungente attualità”. Ma ha precisato Asor Rosa, con una replica altrettanto provocatoria, che quando io polemizzavo con il modello di governabilità dei socialisti, “in realtà temevo l’alleanza tra PCI e PSI, poiché da questa alleanza la sinistra democristiana rischiava di essere frantumata”. E concludeva: “Se (Bodrato) vuole contrastare davvero questa eventualità, la sinistra DC sciolga l’anomalia dell’unità politica dei cattolici. I progressisti da una parte, i conservatori dall’altra (Donat Cattin da una parte, Gava dall’altra). Contestando così, alla radice, il rischio che il giacobinismo degeneri in bonapartismo”.
Correva l’anno ’90. Eravamo alla vigilia del referendum Segni sul voto di preferenza. Craxi invitò gli elettori ad “andare al mare”, il PCI invitò a votare Sì. Con quel referendum inizia un percorso sempre più contraddittorio che ha portato a un Parlamento di “nominati”, come ha ben evidenziato Alessandro Risso ( CLICCA QUI ). Tuttavia altri passaggi “imprevisti” stavano per investire la politica italiana, e il futuro delle democrazia rappresentativa. Dalla fine della democrazia dei partiti hanno preso forza l’antipolitica e i movimenti populisti, insieme al vecchio progetto presidenzialista, sempre più caratterizzato da tentazioni autoritarie…
Torniamo all’oggi, con un articolo di Paolo Mieli (“Corriere della Sera” del 24 agosto) sul naufragio dell’alleanza strutturale tra PD e Movimento 5 Stelle nelle Regioni che andranno al voto lo stesso 20 settembre. Mieli riassume efficacemente le ragioni che hanno spinto i candidati Cinquestelle alla guida delle Regioni a rifiutare l’invito del Presidente del Consiglio a siglare accordi per rendere più sicuro il successo della coalizione al governo contro la destra unita, che si aspetta, dal voto, la crisi del governo Conte.
L’opinione di Mieli è che il PD non è capace di costruire intese che durino nel tempo; poiché ha ereditato la sua strategia più dal PCI che dalla DC. “Così, pur avendo ereditato gran parte di quel che restava dell’elettorato delle formazioni del centro-sinistra degli anni ’60/ ’80, oggi il PD galleggia attorno al 20%.” Come si spiega questa situazione? Secondo Mieli “la capacità di rendere le alleanze strutturate e durature appartenne alla DC ma non al Partito comunista, che dai compagni di strada ha sempre preteso (e spesso ottenuto) subalternità, eventualmente compensata con poltrone”. Per ora, i Cinquestelle hanno rifiutato questo scambio.
Posso aggiungere una mia riflessione: la DC fondava la “politica delle alleanze” sul valore del pluralismo; le coalizioni elettorali tra partiti diversi rispettavano le diversità politiche. Il PCI fondava la sua democrazia interna sul centralismo democratico, e la sua strategia su un “frontismo” costruito sull’egemonia.
L’analisi di Mieli affronta infine la questione della riforma elettorale, partendo da una provocazione sulla “follia del proporzionale puro” per concludere con la proposta di correggere questa “follia” con una quota di rappresentanza da assegnare con il maggioritario. Nessun cenno all’elezione diretta dei “governatori”, il nodo da sciogliere.
La “follia del proporzionale puro” non è mai stata della DC. L’esperienza aveva convinto De Gasperi a imboccare la strada della “proporzionale corretta” con un premio di maggioranza, con la riforma del ’53. Che è fallita perché, secondo la sinistra, minacciava la Costituzione. Sarebbe utile, anche per il tempo che viviamo, una legge elettorale che rispetti il pluralismo, favorisca la formazione di coalizioni che si contendano in premio di maggioranza e rispetti la centralità del Parlamento. Senza minacciare la Costituzione.
Mieli evita di discutere dell’elezione diretta dei “governatori”, rinviando a “dopo” la riforma proporzionale… Ma è l’elezione diretta, intrecciata con il proporzionale a influire negativamente sulla formazione di alleanze strutturate, in quanto l’elezione diretta del “governatore” assegna di fatto un primato al partito che designa il candidato a guidare l’alleanza politica.
A questa obiezione, potrebbero replicare ricordando il “semipresidenzialismo” francese o il presidenzialismo americano. In entrambi questi casi, diversissimi per molte ragioni, i presidenti sono eletti con voto diretto, ma non sono i padroni della maggioranza che li sostiene. L’Assemblea Nazionale a Parigi, il Congresso a Washington, sono Parlamenti eletti con votazioni distinte da quelle per l’elezione del Presidente: non sono la maggioranza del Presidente, che non rappresenta una parte politica. Tuttavia quelle “regole” non evitano che la democrazia possa corre dei rischi. Ccome temono i democratici americani…
Io penso che l’elezione diretta dei “governatori” condizioni negativamente il proporzionale, poiché per l’elezione del Consiglio regionale sono schierate liste diverse a sostegno delle candidature a presidente, nell’illusione di recuperare l’unità politica con la convergenza dei voti sul candidato alla guida della Regione.
L’articolo di Mieli, ha un titolo significativo: Allearsi non è un gioco. La storia ci insegna che questo è il nodo politico da sciogliere.
Guido Bodrato
Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione i Popolari del Piemonte ( CLICCA QUI )