Comincio a credere che ci sia una costante, che ricorre, tutte le volte che si prospetta una modifica della Costituzione. Ogni volta che si propone la modifica di una parte, grande o piccola della nostra Carta fondante, c’è sempre una ragione per infondere nel corpo elettorale l’angoscia del cambiamento. Lo stato d’animo non è di paura, ma d’incertezza. D’innanzi alla possibilità di sostituire l’antico con il nuovo, l’inquietudine domina e condiziona gli stati d’animo, che sono invitati a riflettere sul motto latino: quieta non movere. Questo situazione è stata ben descritta da un autorevolissimo giurista italiano: Chi lascia la strada vecchia per la nuova sa quel che perde non sa quel che trova.

In altri casi, l’angoscia è stata alimentata anche dall’aggressività dell’ordinaria competizione politica che, nel caso della riforma Berlusconi prima e di Renzi poi, ha inciso non poco sull’esito finale.

Oggi, l’avvelenamento partitico si sente meno, col fatto che il voto sulla riforma, nei due rami del Parlamento, ha riscosso un consenso quasi unanime. Tuttavia, non mancano una serie di contingenti ragioni, nobili e meno nobili, che sospingono le motivazioni del No, sorrette dal dubbio sulle incertezze, che ogni nuovo percorso prospetta.

La diminuzione del numero dei parlamentari era prevista, oltre che nella riforma Bozzi (1983-1985) e nella riforma D’Alema (1997), anche nella riforma Berlusconi del 2006 (- 175 parlamentari) e nella riforma Renzi del 2016 (-215). Nei due ultimi casi le modifiche, oltre a riguardare il Parlamento, toccavano anche altri nodi strategici della forma di governo.

Sul referendum del 2016, da più parti, si commentò che l’esito era stato negativo perché la diminuzione dei parlamentari, e alcune altre pur condivisibili innovazioni, non erano state “spacchettate” rispetto al resto della proposta riforma.

Oggi il ragionamento è inverso. Oggetto del referendum è solo la diminuzione del numero dei parlamentari, da 945 a 600, ma, i sostenitori del No lamentano proprio la parzialità della riforma, che non affronta, ad esempio, il superamento del bicameralismo perfetto.

Allora, fuori da ogni atteggiamento populista, la scadenza referendaria va motivata con assoluta serenità di giudizio, al solo fine di concorrere a dare un contributo di idee. Con la consapevolezza che l’esito del voto, qualunque esso sia, non sarà in grado di alterare, in nessun modo, il regolare funzionamento delle istituzioni parlamentari.

L’obiezione maggiore, da me condivisa in un precedente breve scritto ( CLICCA QUI ), concerne la preoccupazione di non menomare le prerogative delle minoranze, siano esse territoriali, politiche, sociali o religiose.

Sul punto si leggono una serie di rilievi, non sempre convincenti. Alcuni esempi.

Personalmente ritengo che tra le scelte strategiche dei prossimi anni, si dovrebbe riservare una particolare attenzione alla valorizzazione delle “aree interne” del Paese: aree marginali, solitamente collinari o montuose, “minoritarie”, rispetto ai territori sommamente urbanizzati, popolati e ben rappresentati. La diminuzione dei parlamentari può concorrere a marginalizzare ulteriormente queste aree poco popolate? Il rischio c’è. Per questo i sostenitori del No richiamano genericamente, a difesa delle loro ragioni, i grandi principi della sovranità popolare, della rappresentanza, della partecipazione. Tuttavia, sempre partendo dalla sfera dei principi costituzionali, si dovrebbe ricordare che, in base all’art. 67 della Costituzione, i deputati e i senatori rappresentano la Nazione nella sua integrità ed esercitano le loro funzioni senza vincolo di mandato. Allora, la capacità d’interpretare le esigenze dei territori marginali non dovrebbe essere legata soltanto all’azione dei parlamentari del territorio, quanto alla capacità dei rappresentanti dell’intera Nazione di farsi interpreti dell’insieme degli interessi locali, la cui salvaguardia è parte integrante dell’interesse nazionale.

In un altro caso, la riduzione del numero dei parlamentari accrescerà il peso delle entità territoriali. Infatti, in base all’art. 83 della Costituzione, il Presidente della Repubblica è eletto dai componenti delle Camere e da tre delegati per regione. É evidente che la diminuzione percentuale della componente parlamentare rispetto a quella regionale, accrescerebbe il peso dei territori, rispetto al peso della rappresentanza politica.

Un’altra osservazione. Si prospetta il rischio che la riduzione del numero dei componenti dei gruppi parlamentari possa accrescere i condizionamenti imposti dalle gerarchie di partito, a danno dell’autonomia parlamentare. Ma, la preoccupazione ad assecondare le direttive dei vertici di partito, per fini di ricandidatura, non è la stessa, se il parlamento è composto di 600 membri oppure di 945? E poi, chi può negare che i vertici di partito condizionano già oggi, pervasivamente, tutte le candidature e la composizione delle liste elettorali? Chi non si è trovato nei collegi uninominali a dover scegliere tra candidati catapultati dal nord al sud, o viceversa, dalle metropoli alle periferie e viceversa?

L’esito favorevole del referendum non cambierà di una virgola il tipo di relazioni che intercorrono tra eletti, gruppi parlamentari e partiti.

Chi ha a cuore il buon funzionamento delle istituzioni italiane, dovrà ammettere invece che le criticità del sistema sono in gran parte legate all’inadeguatezza della rappresentanza, non ai suoi numeri. Tutti avvertono l’assoluta pochezza del confronto parlamentare. Tutti sanno che il problema non è numerico. La verità è che si è rotto il rapporto di fiducia nei confronti delle istituzioni rappresentative, percepite come luogo guerreggiante tra fazioni, piuttosto che come luogo espressivo del pluralismo delle idee. Sotto questo profilo, è indispensabile  che il Parlamento torni ad essere il luogo della competizione culturale, che qualifica la classe politica ed educa gli elettori a scelte consapevoli.

Il referendum è stato chiesto da un quinto dei membri del Senato (64), come previsto dalla Costituzione. Alcuni senatori hanno sottoscritto la richiesta il referendum, pur avendo espresso un voto favorevole in sede parlamentare. Legittimo segnale di libertà assoluta delle nostre istituzioni. Tuttavia, non so se atteggiamenti di tal genere, possano contribuire a rafforzare quel rapporto di reciproca comprensione, dal quale le democrazie non possono prescindere.

Il prioritario valore della Costituzione italiana, la sua anima, per la stragrande maggioranza degli italiani, è la tutela delle minoranze. Il bipolarismo italiano, per quanto abbia guardato a Westminster, non è riuscito a scalfirlo. Dopo più di settanta anni, rimane una scelta culturale e costituzionale non superabile. Tanto vale prenderne atto, fino in fondo, e ragionare, immediatamente, sugli strumenti più adatti per rafforzarlo, a partire dall’introduzione di un sistema integralmente proporzionale, magari personalizzato, con una soglia di sbarramento anche inferiore al 5%.

Guido Guidi

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