Tra le letture che mi stanno accompagnando nella scrittura di una recensione ad un libro molto bello sulle culture politiche che hanno introdotto il processo costituzionale, all’indomani della caduta del fascismo e della scelta repubblicana, mi sono imbattuto in questo brano di don Gianni Baget Bozzo: «Lo schema degasperiano dell’unità dei cattolici era fondato sulla reciproca estraneità fra Chiesa e società politica: l’unità dei cattolici garantiva la libertà ed i beni propri della società civile, la supremazia politica della Dc tutelava la libertà della Chiesa dalle esigenze dello Stato. Per il dossettismo la trasformazione politica della società civile avrebbe dovuto condurre le stesse strutture civili ad esprimere i valori sostanziali del cristianesimo nella laicità formale». Le parole di Baget Bozzo sono contenute nell’opera seminale del sacerdote genovese: Il partito cristiano al potere. La Dc di De Gasperi e di Dossetti (Firenze, 1974). In definitiva, il perno teorico che ci consente di stabilire la distanza tra i due leader democristiani credo risieda in un deficit di cultura liberale da parte dei democristiani di seconda generazione. Di quei popolari che non ebbero modo di conoscere direttamente il maestro del cattolicesimo liberale, quel don Luigi Sturzo che trascorse ventidue anni in esilio, proprio in nome del popolarismo che incontrava il liberalismo, contro la furia totalitaria. Un’eredità, quella liberale sturziana, che De Gasperi aveva fatto propria e tentato di trasmettere alla generazione di democratici cristiani vissuti nel ventennio fascista e infarciti di cultura politica ed economica di tipo corporativistico.

Credo che questo sia un punto importante per capire anche i caratteri della diaspora che è seguita all’implosione della Dc, con l’emergere dello scandalo di Tangentopoli e l’avvento di una stagione politica in cui l’elettorato cattolico si è legittimamente orientato verso differenti opzioni politiche, certificando il fallimento di tutti i tentativi di riproposizione di un’offerta politica di matrice cattolica, esperiti sia nel campo del centro destra sia nel campo del centro sinistra.

Credo che la riflessione sui caratteri di quella diaspora che ha sancito la fine della presenza organizzata dei cattolici in un partito, con tutte le approssimazioni del caso, non essendo mai esistita una vera e propria unità dei cattolici in un unico partito, possa risultare utile per comprendere le difficoltà che ancora oggi si incontrano nella rappresentazione unitaria di una cultura politica estremamente plurale.

La divisione interessa proprio quel perno teorico dal quale siamo partiti: la consapevolezza del merito da attribuire alla cultura liberale. Il riconoscimento da parte di Sturzo del metodo di libertà come portato del liberalismo politico, una conquista «inestirpabile» del genere umano, spinge il teorico del popolarismo ad affermare che «Quel che rimane del moto liberale è anzitutto un elemento importantissimo acquisito alla coscienza umana, cioè il metodo della libertà inteso nel campo politico come libero gioco delle forze sociali, sia come partiti, sia come organismi economici, sia come correnti intellettuali e morali». Sebbene il metodo di libertà non fosse un’invenzione del liberalismo del XIX secolo, Sturzo ci ricorda che «bisogna riconoscere che il liberalismo lo ridusse a sistema, lo applicò alla vita politica, lo spogliò degli eccessi dell’individualismo, lo adattò agli sviluppi democratici. Tutti ne approfittarono, anche la chiesa […] il vantaggio su tutti gli altri sistemi politici è enorme».

È questa una consapevolezza che attiene alla cultura politica cattolico-liberale che produce effetti anche nel campo della cultura economica e che inevitabilmente si scontra con altre legittime culture politiche ed economiche che hanno teorizzato ed ancor oggi teorizzano il superamento dell’economia di mercato. Nei primi del Novecento immaginando un’improbabile riedizione della società corporativa medioevale, facilmente preda dell’autoritarismo statolatrico, a vocazione totalitaria, del fascismo, ed oggi ipotizzando non precisate fughe laterali che ripropongono un ruolo dello Stato target oriented, piuttosto che rule oriented, come nella più nobile tradizione del costituzionalismo liberale: il compito della costituzione, e della costituzione economica in modo particolare, è di rappresentare un limite al potere, non di disegnare un’architettura che programmi l’azione di governo.

La distanza che separa la cultura politica sturziana, degasperiana e, più in generale, liberale, rispetto a quella dossettiana, diremmo neostatalista, corporativistica e neo-corporativistica, consiste nelle legittime differenti visioni che i cattolici hanno dello Stato. Per la prospettiva sturziana e liberale, spetterebbe allo Stato il ruolo di «garanzia e di vigilanza dei diritti collettivi e privati», di mantenere l’ordine pubblico, la difesa nazionale, la tutela e la vigilanza del sistema monetario e creditizio; e ancora, tutelare e vigilare sulla finanza pubblica e garantire la buona amministrazione; solo secondariamente e «in via sussidiaria lo stato interviene, in forma integrativa, in quei settori di interesse sociale e generale nei quali l’iniziativa privata sia deficiente, sino a che sia in grado di riprendere il proprio ruolo» (L. Sturzo). È questa la posizione sia dello Sturzo popolare, precedente all’esilio, sia di quello successivo al rientro in patria nel 1946 e che proprio sul tema del ruolo dello Stato e della libera iniziativa economica entrerà in polemica con molti democratici cristiani della seconda generazione; le ragioni di quella polemica non sembrano ancora affatto superate.

Flavio Felice

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