Le botte che gruppi di senatori si sono scambiati in aula a palazzo Madama giorni fa fanno riflettere. Il confronto politico si incattivisce al punto che i rappresentati del popolo, perfino nella “Camera alta” che pur non è l’arena di Montecitorio – dove, beninteso, sarebbe altrettanto deprecabile – vengono addirittura alle mani.

Non succede a caso. C’è chi ancora pensa che la violenza sia una dimostrazione di forza e di risoluta determinazione. La violenza è, al contrario, una sorta di catena ininterrotta, intessuta da cima a fondo di gesti e di parole che si tengono e si equivalgono, cosicché dall’aggressività verbale si rischia di passare, perfino quasi insensibilmente, a toni e forme via via più eclatanti di una violenza anche fisica che , da un certo livello in poi, si avvita su sé stessa e si impone, al punto  che chi ne ha gettato il primo seme finisce per esserne, ad un tempo, protagonista e vittima, quasi quanto il soggetto che di tale vulnus rappresenta il bersaglio.

I violenti sono esecrabili, eppure fanno pena ed è tale la desolazione interiore da cui trae origine il comportamento dei violenti da invocare per loro una qualche forma di compassione .

Una violenza livida di rancore, sentimenti di rabbia e di vendetta, toni ora irridenti, ora sprezzanti invadono ogni giorno, in un crescendo impressionante, il linguaggio e gli atteggiamenti che presiedono al confronto politico in un Paese che è evidentemente malato, scosso al punto d’ essere facile preda di chi di fatto, oggettivamente e  subdolamente lo incita all’odio, come se la devastazione di un tale sentimento fosse il solo approdo consentito, l’unico contrappeso che bilancia la misura del profondo turbamento di molti.

C’è una responsabilità politica e c’ è  una responsabilità morale che si intrecciano l’una all’altra nel merito dei contenuti e nel metodo, cioè nei gesti, nei comportamenti  di diverse  tra le forze in campo nel nostro scenario politico-istituzionale.

La prima non dispensa dalla seconda e la seconda non basta ad assolvere le carenze della prima e,  ad ogni modo, è indispensabile portare il Paese, gli italiani, il popolo, i cittadini, ciascuna nella sua singolare responsabilità, fuori da questa fanghiglia appiccicaticcia e vischiosa.

E’ urgente che ciascuno assuma la responsabilità di concorrere alla “trasformazione” del nostro sistema politico, anziché ciondolare sull’orlo di una acquiescenza carica di opportunismo e di finzione. Dovremo pur risorgere dalle brume della pandemia, ma come potremo farlo?

Recando in dote alle prossime generazioni, oltre al debito, anche il carattere oscuro di un popolo, per sua natura aperto e solare, che viene incalzato, invece, ed educato dall’esempio e dalla pedagogia irosa della stessa classe politica – o meglio di una sua ben definita parte – ad alimentarsi alle fonti del sospetto, della reciproca insofferenza, della diffidenza?

L’avvitamento nelle parole e nei gesti del rancore va spezzato. Se consentissimo che l’odio persista fino ad assumere il carattere di un abito mentale, finirebbe per assorbire  e frantumare ogni altro linguaggio, cosicché si imporrebbe come unica ed ultima risorsa espressiva di cui disponga la collettività.

Salvo rifugiarsi, come difesa estrema, in una palude di distacco e di indifferenza, che corromperebbe, più di quanto già non sia,  il sentimento di appartenenza e di coesione sociale, così che il Paese finisca per approdare ad una sostanziale inerzia. Del resto, la violenza non sempre si dà in modo palese.

Assume, talvolta, forme striscianti e subdole, nel segno, addirittura,  di un buonismo che è tanto più irritante ed offensivo nella misura in cui  di fatto irride, assumendoli a mo’ di propaganda, sentimenti di altruismo e di solidarietà che per molti sono, invece, un impegno vissuto o addirittura una ragione di vita.

Domenico Galbiati

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