L’indisponibilità di Sergio Mattarella a veder prorogato il proprio mandato al Quirinale è stata seguita dall’impazzimento della maggioranza di governo. Cosa che va di pari passo con l’esplosione del centrodestra e l’inanità dell’altro fronte contrapposto.
Fresca l’immagine offerta ieri dal centrodestra con la proposta di una rosa di tre nomi. Per i modi in cui è stata avanzata, a seguito del precedente, autonomo lancio in pista dell’ex magistrato Carlo Nordio da parte di Giorgia Meloni, finisce per apparire solamente una multipla candidatura di bandiera. Non è stata molto presa in considerazione in occasione della seconda chiama neppure dai Grandi elettori di quello schieramento. A conferma di una sostanziale incapacità ad assumere una reale iniziativa politica dopo il ritiro di Silvio Berlusconi.
Enrico Letta, dall’altra parte della barricata, risponde con un laconico “valutiamo senza pregiudizi” anticipando quello che è diventato un “no” da parte di tutta la sua coalizione. Il Segretario del Pd sa benissimo che il punto centrale sul tavolo in queste ore è quello della eventuale salita al Colle di Mario Draghi.
Sono in molti i capi di partito che, in realtà, non vogliono che questo accada. Così come da altri ambiti, europei, finanziari ed economici giungono, in maniera più o meno garbata, con toni più o meno perentori, le sollecitazioni all’attuale Capo del Governo affinché resti a Palazzo Chigi. Tanti lo vogliono vedere continuare a svolgere solamente i “compiti a casa” che si presume gli siano stati assegnati al momento di formare l’attuale Esecutivo. Ma siamo sicuri che quei “compiti” siano gli stessi concepiti da Mario Draghi? Nel corso della conferenza stampa della vigilia dello scorso Natale si è definito “un nonno al servizio delle Istituzioni”. Come solitamente fanno tutti i nonni, si è messo a disposizione. Ha fatto ben intendere che pensava di farlo meglio dal Quirinale.
Chi gli sta ricordando l’esistenza di eventuali “pacta sunt servanda”, più o meno esplicitati e condivisi, finisce per stringere in un groviglio inestricabile la scelta del Quirinale e tutto ciò che ruota attorno al futuro del Governo. Ma anche in politica vengono i momenti in cui è bene mantenere le questioni chiare e distinte e riuscire a discernere il prima dal dopo.
In realtà, Draghi sta toccando con mano come la sua maggioranza sia riottosa a ricomporglisi attorno in occasione della scelta del Capo dello Stato. Può darsi che questo possa costituire comprensibile motivo per portarlo ad una ennesima riflessione non tanto, o non solo, su quanto la coerenza, la gratitudine e la parola data possano resistere in politica, bensì soprattutto su come i partiti intendono realmente affrontare le tante crisi del Paese, incluse le loro.
Mentre il nostro amico Adalberto Notarpietro ci dice perché, a suo personale avviso, Mario Draghi dovrebbe essere mandato al Quirinale (CLICCA QUI), presa di posizione che volentieri pubblichiamo in questa che è una palestra di discussione aperta, c’è chi si chiede quanto potrebbero diventare concreti i rischi che, allora, dopo quella di Mattarella, potremmo assistere a un’altra rinuncia. Essa pure significativa, sia pure nei tempi e nei modi che saranno da verificare, ma certamente destinata a lasciare il segno, in Italia e all’estero. Se è indubbio che questo è già argomento da “talk show” televisivo o da “cronaca rosa” che, oramai, inonda anche quello che un tempo era da considerarsi il meglio del nostro giornalismo, le valutazioni di un “servitore dello Stato” com’è Mario Draghi si muoveranno ad altro livello e sulla base dei reali interessi del Paese.
Tra i tanti “no” che si frappongono tra Draghi e il Quirinale rimbombano quelli provenienti da chi teme che, una volta salito all’ex residenza dei Papi, i partiti saranno espropriati dalla possibilità di formare e condizionare il futuro governo. E’ questo che sta legando una questione all’altra. E’ questo che rischia di rendere il voto in corso in questi giorni la vera e propria “via crucis” finale della crisi dell’attuale sistema politico.
“Galeotto fu il libro e chi lo scrisse”. Viene oggi da ripensare alle dichiarazioni di Giancarlo Giorgetti sul “semi presidenzialismo di fatto” che egli auspicava si potesse creare attorno a Mario Draghi. Opinioni personali del dirigente leghista. Che però hanno avuto l’effetto di sollecitare la diffidenza di quanti già avevano mal digerito l’arrivo dell’ex Presidente della Bce a Palazzo Chigi e, soprattutto, quella di Matteo Salvini.
Sergio Mattarella è volato a Palermo e da là osserva disincantato, ma comunque pieno di speranze e riandando al suo ultimo messaggio di Capodanno in cui spiccò la frase “Se guardo al cammino che abbiamo fatto insieme in questi sette anni nutro fiducia”. Sappiamo però che il Presidente, e lo si vede dalle sue decisioni abitative romane, vuole rimanere nel vivo dell’attività politico parlamentare: sarà comunque Senatore a vita. Oggi possiamo chiederci se l’ipotesi che egli potesse restare al Quirinale, ma in maniera piena e senza condizioni, non sia stata adeguatamente valutata e perseguita. Tanto è evidente che non gli si poteva chiedere di restare a fare il Capo dello Stato a termine. Oggi si constata cosa significhi l’interruzione dell’esperienza fondata sull’asse Mattarella- Draghi.
L’Italia è paese pieno di risorse, umane, morali e di competenze. Purtroppo, moltissime rifluite al di fuori e lontano dalla politica. Se i partiti, invece di ricercarle pensando ai loro equilibri, spesso raggiungendoli al ribasso, si guardassero in giro puntando su quelle risorse potrebbero riuscire a mostrare almeno di voler dare un colpo d’ala.
Nel caso fosse proprio impossibile la permanenza al Quirinale dell’attuale inquilino, alcune soluzioni sono sempre a portata di mano per assicurare una sorta di continuità, in grado di fornire a Draghi un motivo in più per continuare. Già ricordata lo scorso 1 dicembre (CLICCA QUI), c’è quella che potrebbe venire dal riferirsi al colpo d’ala del 2015, allorquando i partiti, nel pieno di una situazione incancrenita come quella che vediamo riproporsi nelle due Camere riunite, votarono il professor Giulio Prosperetti a Giudice costituzionale. Fu scelto, finalmente, dopo 32 infruttuose votazioni e raggiungendo una maggioranza di consensi persino superiore al quorum necessario per eleggere il nuovo inquilino del Quirinale.
Giancarlo Infante