Ho letto con molto interesse l’articolo di Fabrizio Manzione ( CLICCA QUI ), che fa una narrazione puntuale della storia del Bitcoin. E devo dire che mi ha suscitato più di qualche riflessione. Una, in particolare, credo sia di stringente attualità nel panorama attuale.

“Se all’interno di una comunità accetto dunque culturalmente che una stringa alfanumerica, e non una banconota, sia qualcosa che posso utilizzare per acquistare beni e servizi, quella stringa diviene una moneta; il concetto non è diverso se pensiamo ai braccialetti di perline che circolavano dentro i villaggi turistici. A una condizione: che soddisfi le caratteristiche di garanzia necessarie, ossia che la sua proprietà possa essere univocamente e irrevocabilmente identificata, e che non sia possibile il double spending.”

Questo è un ragionamento davvero stimolante, perché ci interroga ancora una volta sulla natura della moneta. I braccialetti di perline non sono riconosciuti dalla comunità internazionale come moneta, questo è vero. Ma le azioni sì. Ci si fanno fusioni miliardarie ogni anno. Si potrebbe anche, forse in maniera spericolata, dire che i volumi mossi dallo scambio di azioni siano superiori a quelle di molte valute. Le azioni, quindi, sono una moneta? No.

Non lo sono, perché quando si compra in azioni si compie un negozio molto più antico della compravendita. Cioè il baratto. Il baratto, o scambio, è negozio giuridico nobilissimo, che la storia ha sicuramente rivalutato. A scartarlo, sdegnosamente, è il diritto che, dai tempi di Roma, lo guarda con sospetto. Lo scambio in natura, infatti, pone sfide insuperabili: cosa è il prezzo di cosa? Se devo rimborsare un acquisto, ed il bene barattato ha subito un crollo di valore, che si fa? Ho semplificato di molto, ma il nocciolo è questo: la compravendita richiede un quid che non sia, in sé, una merce. Cioè, banalmente, una moneta.

La moneta deve essere, intrinsecamente, una unità di conto prima che un mezzo di scambio. Perché di mezzi di scambio ce ne sono infiniti. Dalle azioni all’oro. Ma di strumenti il cui valore non fluttua (i famosi cento centimetri nel metro) non se ne trovano così tanti. Ecco perché a Bretton Woods fu abbandonato l’oro: rischiava di trasformare il dollaro in un bene rifugio. Qualcuno si concentra sul termine “rifugio”. Ma il problema vero era che si stava reificando. Stava, quindi, perdendo il senso astratto della misura.

L’articolo, però, e con esso la storia del Bitcoin, indica un rischio molto più concreto della moneta deflazionaria. Il suo opposto. Quella inflazionaria. Il problema è estremamente grave, perché gli effetti dell’inflazione non sono sempre facilmente misurabili sul breve periodo, ma fanno crescere le bolle. Che poi scoppiano, portandosi dietro inevitabilmente l’economia reale. Qualcuno potrà obiettarmi che l’inflazione, oggi, non è certo un pericolo, anzi. Molti economisti riterrebbero saggio e prudente spingere sulla creazione di denaro. Mi permetto di dissentire. L’inflazione c’è, ma non viene misurata. Il denaro, infatti, viene sequestrato dalla finanza. Che è molto più redditizia dell’economia reale.

Solo che, aumentando l’offerta monetaria, i rischi finanziari aumentano e la disponibilità di capitale per le famiglie ristagna. Oppure aumenta, ma in maniera molto limitata. Quindi si stampa di più. In un ciclo pericoloso, come si è visto negli Stati Uniti nel 2018: a seguito di un rischio di aumento dei salari (dovuto ad una riduzione della forza lavoro), è parso agli operatori che la FED avrebbe aumentato i tassi. Per controllare l’inflazione. Questo ha fatto crollare le Borse. In sostanza, il rischio di un taglio al denaro gratis (che gratis non è, visto che dei titoli a garanzia ci sono. Titoli fruttiferi, mi preme ricordare), ha provocato un crollo della Borsa. Questo è solo un esempio di cosa succeda ad inflazionare le monete: anche quando è difficile calcolarne gli effetti immediati, quelli di lungo termine sono certi. Ineluttabili, verrebbe da dire.

Per concludere: la moneta non è un mezzo di giustizia sociale, non è l’oriflamma dietro cui raccogliere una banda di amici ben intenzionati per scardinare il sistema. La moneta, ahimè, è solo uno strumento di conto che funge da mezzo di scambio e consente di mantenere il valore. Qualcosa di banale. Nessuno ha ancora sentito il bisogno di inventare il bitmeter per cambiare il numero di centimetri che ci stanno in un metro. Perché ce ne è chiara la funzione: è un metodo razionale (con buona pace del sistema di misure imperiale) per misurare la lunghezza. La moneta deve essere lo strumento con cui misuriamo il valore economico di un bene. Ogni altro uso fa venire meno la sua essenza.

E se, nel caso dei bitcoin o dei braccialetti in spiaggia, il danno è tutto sommato contenuto ed il rischio individuale assolutamente marginale, nel caso di valute nazionale i danni possono essere spaventosi. Ecco il perché delle Banche Centrali: la decentralizzazione della produzione di moneta, dopo secoli di tentativi, non è mai riuscita a produrre stabilità. Il Bitcoin, con le sue montagne russe, ne è stato solo un’ultima dimostrazione. E su questo tema, prima o poi, una riflessione sulla riserva frazionaria andrebbe fatta, visto che è un metodo mascherato di produzione monetaria che sul sistema incide eccome…

Luca Rampazzo

Immagine utilizzata:Pixabay

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