La Corte Costituzionale ha dunque giudicato inammissibili i due quesiti concernenti il referendum sull’ omicidio del consenziente e quello sulla liberalizzazione della coltivazione di sostanze stupefacenti ed ha ammesso invece quattro referendum sulla giustizia, sui sei richiesti.

Sembra a molti che la strada della democrazia diretta sia diventata più ardua da percorrere, proprio in un momento in cui la nostra democrazia rappresentativa esprime le sue peggiori performances storiche. Anche chi non ha dubitato neppure un attimo che ogni sentenza delle Corti, Corte Costituzionale inclusa, vada rispettata, stavolta qualche dubbio ce l’ha e lo esprime. C’è addirittura chi ha parlato di “errore materiale nel giudizio o attacco in malafede” da parte della Corte. Molti però hanno espresso perplessità.

Davvero una sconfitta della democrazia allora? O una sconfitta del popolo sovrano? C’è da una parte uno “Stato etico” e dall’altra la difesa radicale e umana della libertà tout court? Radicali , destra, sinistra estrema (un inedito ed anomalo “fronte progressista”) sembrano essere eccezionalmente d’accordo nel criticare questa decisione. E’ un fatto che non mi pare trovi precedenti, almeno in questo rilievo. E su cui vale la pena riflettere. E se si trattasse invece di altro, cioè della incapacità di una larga parte della cultura civile di accettare le regole costituzionali? Si profila infatti un’inaspettata omogeneità culturale della cultura civile diffusa, particolarmente vicina alla cultura “mainstream” accreditata nei media, oggi uniformemente “spalmata” su tutti gli schieramenti politici da “destra” a “sinistra”. Forse è di qui che si può ripartire per contribuire alla “rifondazione antropologica” della nostra cultura civile.

Riflettiamo un attimo, andando oltre i pregiudizi, soprattutto sui due referendum non ammessi, sull’omicidio del consenziente e sulle sostanze stupefacenti. A cosa serve il referendum nella nostra democrazia rappresentativa così come voluta dai Costituenti? Prima di tutto, il referendum non può servire a decidere “dove deve andare” l’Italia, o a delineare nuove maggioranze politiche, decisione che spetta solo agli elettori politici. Certo, talvolta si è cercato di piegare il referendum  in questo senso, o siamo stati tentati di farlo. Ma è stato ed è un uso improprio.  Il referendum abrogativo (non propositivo!) serve a tutt’altro. Serve a riallineare rappresentanza e rappresentati. E’ una sorta di riflessione ex post su una legge o su parti di essa: il cittadino comune ha potuto sperimentare e valutare una legge e, se chiede il referendum, è per esprimere una valutazione divergente rispetto alle scelte dei suoi rappresentanti. Per questo la necessità del quorum per la validità della pronuncia abrogativa.

I referendum considerati inammissibili lo sono stati in relazione alla considerazione che la norma che sarebbe uscita dalle urne, in caso di esito favorevole ai proponenti: contrastava con il testo costituzionale o con obblighi costituzionali legati ad esso. Così, è stato per il referendum sull’omicidio del consenziente e sulla coltivazione delle sostanze stupefacenti.

Pur premettendo che i problemi del fine vita non hanno attualmente e devono avere invece urgentemente una sistemazione legislativa che è carente, in linea anche con le sentenze della Corte Costituzionale, come quella sul “suicidio assistito”,  la decisione della Corte, specialmente in questo caso, evidenzia le aporie e le contraddizioni di una cultura civile che non regge più il peso delle sfide antropologiche che abbiamo davanti.

La nostra cultura civile è segnata da due carenze enormi, ma che non riusciamo a vedere, per la loro “enormità”, per la loro estraneità alle “norme” cui siamo assuefatti.  La prima carenza: noi viviamo una cultura civile che rispecchia perfettamente la  società dell’astrazione  entro cui viviamo in questo XXI° secolo. La società dell’astrazione, nata da uno straordinario “progresso” tecnologico, è esattamente l’opposto della società della cura, dell’attenzione concreta alle persone, alle cose, all’ambiente. Come abbiamo ben capito con la pandemia.

E’ successo che, in questo inizio millennio, sopraffatti da un “progresso” che ci ha messo a disposizione una quantità debordante di strumenti, di mezzi, ci siamo rapidamente assuefatti a un modo di pensare la realtà sociale che comporta una radicale sostituzione dei mezzi ai fini. E questo ha favorito una sostituzione della facoltà di astrarre rispetto alla facoltà di pensare, una sostituzione degli oggetti reali con gli oggetti mentali, una sostituzione cui siamo ormai assuefatti, ma che nasconde anche effetti inquietanti, di cui facciamo difficoltà a renderci conto. Un’astrazione oggi pienamente realizzata dall’alleanza di tecnologia ed economia, che impone l’irrespon­sabile dominio del principio utilitaristico, che costituisce una zona neutra indipendente da bene e giustizia. Al di là del bene e del male.

Viviamo in una società della crescita e dell’accumulazione. Ma “crescita e accumulazione sono fondate in realtà su una serie di perdite dolorose, mutilanti, pregiudizievoli per uno sviluppo della condizione umana che sia adeguato alla nostra dignità. Così’ sistematicamente si accumulano valori fittizi e si perdono valori reali: le nostre crescite sono crescite distruttive, come hanno intuito prima i critici della dialettica dell’illuminismo e poi gli studiosi di bio-economia, di ecologia, di psichiatria sociale. Non per niente la società contemporanea è stata definita l’impero delle en­tropie», R. Mancini, Dialettiche della paura nella società dell’astrazione, in La paura. Riflessioni interdisciplinari per un dibattito contemporaneo su violenza, ordine, sicurezza e diritto di punire, in «Quaderno di storia del penale e della giustizia», n. 1/2019, Università di Macerata, rivista online, p. 38.­

La mediazione tecnologica universale delle relazioni umane, che sta ormai subordinando a sé le menti sotto forma di pensiero tecnocratico, o di inconscio tecnocratico, rende infatti inessenziale la relazione umana e fa semplicemente invisibile il volto dell’altro e, insieme ad esso, il senso vero dei diritti della per­sona. Tali diritti pertanto divengono indifendibili nella cultura diffusa, una cultura che si caratterizza per una cecità morale che rende non più percepibile e quindi non più qualificabile come tale il male morale e, in certi casi, addirittura anche il reato ( non però la necessità di punire il reato una volta riconosciuto come tale). Ne è una prova il venir meno del senso diffuso del reato per ciò che concerne molti delitti, specie di nuovo tipo, contro la persona, a differenza di quanto accade per i delitti contro il patrimonio, contro la pubblica amministrazione o persino contro lo Stato, che sono invece ancora ben riconosciuti e suscitano rabbia o indignazione diffuse. I delitti contro l’essere umano in generale invece sono sempre meno avvertiti come tali dalle nuove genera­zioni, confinate entro l’ingannevole realtà parallela dei social che ignora completamente la dignità umana

Tutto questo succede perché in questa cultura in cui contano i mezzi, le parole, anche essi un mezzo per ottenere “altro”, sono ormai disconnesse dalla realtà, da ogni realtà. Quando usiamo la parola “persona” o quando leggiamo o ascoltiamo  questa parola, non abbiamo più idea di cosa significhi. E’ solo un semplice sinonimo di uomo, individuo, essere umano. Abbiamo smesso di ascoltare ( sul serio) come anche di leggere ( sul serio). Non abbiamo invece smesso di parlare, o di usare le parole. Abbiamo così  un po’ tutti adottato una concezione che nega la persona e il personalismo costituzionali, un “personalismo” che non è il portato di una concezione cattolica, ma è lo spirito che segna uno dei principi immodificabili del nostro testo costituzionale, fissato dallo storico incontro tra le correnti cristiane, social-comuniste e liberali che quel testo vollero, ed in particolare gli artt. 2 e 3, che più hanno a che fare con la “dignità” dell’uomo.

Il diritto di essere se stessi, di essere “liberi fino alla fine”, non può, in questa accezione personalistica,  confliggere col diritto al pieno sviluppo della persona umana. La Costituzione infatti non prende in considerazione  quell’ individuo- monade, astratto ed isolato, cui siamo abituati nella società di mercato che venera come un  idolo la propria pretesa autonomia assoluta , o tanto meno l’individuo “incapsulato” e “socialmente distanziato” che abbiamo sperimentato durante le fasi più acute del Covid.

Il nostro testo costituzionale conosce invece solo  un individuo  che agisce sempre uti socius che ha una profonda natura relazionale. Ognuno di noi è, in contemporanea, individuo e parte di una comunità. Individualismo e organicismo non sono dimensioni da conciliare dialetticamente, se ci fondiamo sulla natura relazionale profonda  di ciascuno di noi. Il totalitarismo del XX secolo aveva mostrato, in negativo, i rischi terribili di questa relazionalità: aveva mostrato  quanto il pensiero stesso del singolo (la sua dignità in fondo!) fosse permeabile e vulnerabile di fronte ai poteri esterni, a partire da quelli statali. La nostra Costituzione ha liberato dunque il soggetto giuridico dall’astrattezza che lo caratterizzava all’epoca dell’affermazione della dommatica giusprivatistica.  Ha affermato, per tutelare questa relazionalità, principi opposti ad essa, come quelli di di realismo ragionevolezza e concretezza ( vedi Manifesto fondativo di INSIEME- CLICCA QUI).

Per questo motivo nel caso del referendum sull’omicidio del consenziente  il pericolo era quello di  produrre un vulnus nella struttura costituzionale. In questo caso, per effetto della abrogazione posta nel quesito referendario, ciò che si sarebbe determinato sarebbe stata la rottura degli argini della tutela del diritto alla vita nelle condizioni in cui la presunta “autodeterminazione” della persona- in situazione di fragilità e debolezza-  non potesse garantire la libertà responsabile della scelta. In effetti una generale inoffensività dell’aiuto al suicidio- e quindi la possibilità di non considerarlo reato-  non potrebbe desumersi da un generico diritto all’autodeterminazione individuale, ravvisandosi – sempre in via generale – la ratio della disposizione incriminatrice nella tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio [……..] anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere, come la Corte stessa aveva già indicato.  (Ordinanza n. 207 del 2018 e Sentenza n. 242 del 2019).

C’è un secondo aspetto, una seconda aporia nella cultura diffusa, evidenziato dalle richieste referendarie.

Se i referendum non ammessi sulle questioni “eticamente sensibili” mettono in evidenza ciò che è divenuta la cultura della società dell’astrazione, a loro volta i referendum sulla “giustizia giusta” parzialmente ammessi (quattro su sei), mettono in evidenza una seconda debolezza. Perché le stesse forze politiche che perseguono in Parlamento la realizzazione di quelle norme di riforma della giustizia promuovono dei referendum che vanno nella medesima direzione ( ad esempio la riforma elettorale del CSM) ? Una sorta di “rinforzo” all’azione legislativa? Sarebbe un’altra anomalia, ma niente di male. Anche se certo l’impossibilità di usare la “forza di traino” dei due referendum su questioni sensibili eticamente metterebbe a rischio il quorum. Evidentemente, si tratta di problemi meno “sentiti”. Ma allora perché proporre i referendum su questi temi, nell’anno che precede la campagna elettorale?

Azzardiamo una ipotesi. Che oggi si ritenga “politicamente” produttivo fare una battaglia sulla “Giustizia”, o contro la “Giustizia ingiusta”. La “Giustizia”, è ormai in Italia da lunghissimo tempo terreno di scontro e cavallo di battaglia di “battaglie” politiche strumentali, finalizzate ad obiettivi diversi, in genere però  mai connessi a quello di migliorare il sistema giudiziario per il cittadino comune.

Trenta anni sono passati da Mani Pulite!  E’ da allora che si è entrati in una cultura civile e politica che affidava la risoluzione dei problemi politici più pesanti (da quelli dell’ambiente a quelli della criminalità e della mafia nonché della corruzione) all’opera del potere giudiziario. Qualcuno disse che il potere giudiziario avrebbe rovesciato l’Italia come un calzino. Era una cultura che, se pur poneva il rispetto della legge al primo posto, almeno nel senso comune, alimentava una idea negativa della società, generalizzava una “legge della sfiducia”, se non del sospetto, per cui il cittadino andava sottoposto alla minaccia di una efficiente legge penale. Del resto, non poteva essere diversamente nel paese in cui mafia e camorra paiono fenomeni endemici ed ineliminabili.

Certo  c’erano uomini che mostravano coraggio ed abnegazione, c’erano magistrati d’indubbio valore, c’erano Falcone e Borsellino e tanti altri che qui sarebbe impossibile elencare. Ma quelli erano degli eroi, delle persone fuori dal comune. L’italiano medio, quello che votava alle elezioni ed era eletto era fatto di altra stoffa. La politica che stava degenerando da tempo aveva finalmente trovato un supplente.

La “legge della sfiducia”  e la criminalizzazione virtuale  delle persone (il male è il fondo di ogni uomo). L’idea di Homo homini lupus , avrebbe avuto la meglio. La legge penale, dunque, come prima ratio e non ultima ratio. E il potere giudiziario non come il potere che deve tutelare la dignità e la libertà personale di chi è sanzionato da una legge penale, ma come il potere di debellare criminalità e corruzione e di estirparle, un potere di deterrenza, invece di un potere garante delle libertà. Nasceva una sorta di cultura della legalità punitiva, affidata in via prioritaria alla legge penale, che avrebbe dovuto risolvere i problemi, utilizzando la deterrenza in funzione general-preventiva. Con una legge che talvolta si auspicava “spietata”, priva di misericordia per il colpevole accertato che “deve marcire in galera”, una legge priva di pietà e umanità (  Farinata chiede a Dante “Dimmi: perché quel popolo è sì empio / incontr’a ‘ miei in ciascuna sua legge?” Inferno, X, 83-84) a costo di suscitare catene di ritorsioni e di odi.

Si trattava di una versione italiana della pratica sudamericana del  “lawfare” ad un trentennio da Mani pulite. Mani Pulite, l’arma giudiziaria che rimpiazzava quella lotta ideale che i partiti, ormai divenuti ditte che gestivano un proprio patrimonio ( almeno nei casi migliori),  non conducevano più.

Si rafforzò l’idea, falsando la storia, che droga corruzione e mafia fossero mali endemici degli Italiani, non gli effetti di una maldestra organizzazione dei poteri pubblici entro lo Stato unitario. La gara elettorale su personalizzò: l’elettore doveva scegliere la persona, onesta, capace, coraggiosa; di fatto, quella disponibile nell’agorà mediatica ( la Destra) o in quella istituzionale ( la Sinistra). E’ stata una lunga, gigantesca illusione, che fra l’altro ha finito per esporre  la magistratura a quelle contaminazioni e scambi col potere politico che dovevano finire per portare scandali e malcostume anche al suo interno.

Una volta caduta la fiducia nella Magistratura, la “legge della sfiducia” avrebbe assunto così dimensioni devastanti, in grado di distruggere ogni senso di comunità,  così come la cultura dell’astrazione avrebbe distrutto il concetto di società. Solo l’individuo esiste, e magari il Mercato. Fino ad arrivare al “distanziamento sociale” che si è realizzato anche senza l’intervento del Covid. Esattamente l’opposto di ciò che è necessario per uscire dalla crisi in cui ci troviamo, che ha bisogno di quella “legge della fiducia” di cui ha parlato Tommaso Greco in un testo uscito nel 2022 ( sottotitolo “Alle radici del diritto”).

Riavvicinare diritto e società, superare la società dell’astrazione,  ricostruire la legge della fiducia è possibile solo recuperando i principi di partecipazione, rappresentatività, inclusione ( come indicato nel Manifesto di INSIEME ), ricollocando al vertice degli obiettivi le finalità umane, cui i mezzi impiegati devono sempre essere subordinati. E’ solo una rinata cultura civile che può indicare dove deve andare l’ Italia, non una “batteria” di referendum, che possono solo indicare ciò che deve essere abrogato, o corretto, ma  non ciò che deve essere ideato, ordinato e costruito per dare un futuro all’ Italia.

Umberto Baldocchi

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