Nel cielo del Sole del Paradiso di Dante rifulgono gli spiriti sapienti.
Due di loro, Tommaso d’Aquino e Bonaventura di Bagnoregio, glorificano san Francesco e san Domenico, per aver difeso e rinverdito la Chiesa militante, costituendo i due maggiori ordini mendicanti. Così definiti, perché traggono i mezzi di sostentamento dall’elemosina e dal lavoro, dato che i conventi non hanno, né gestiscono terreni, con relative decime ed esazioni. I due oratori seguono la prassi dell’elogio incrociato dei rispettivi fondatori, poi rimproverano in modo speculare certi confratelli che non seguono la dritta via. I loro eccessi, che snaturano famiglie monastiche che aspirano a essere avamposti in terra di celeste armonia, germinano dal seme malefico della discordia.
Per Dante conta moltissimo lo spirito di fraternità, ai fini del bene comune. E al riordinamento del mondo serve che la sapienza cristiana innervi i vari gangli sociali e politici, a partire dalla famiglia. I conventi, i frati -nome impegnativo- devono essere un esempio di rispetto delle regole. Altrimenti, come per ogni altra comunità, c’è l’erosione interna e lo sfaldamento. I sapienti del cielo usano “sì del cantare e sì del fiammeggiarsi” (v.22), per mostrare cos’è l’armonia d’intenti che rispecchia il volere di Dio: una (francescana) interrelazione di creature, fra loro e con l’universo.
I cristiani, se forti per virtù e buona volontà, non possono che agire in funzione del buongoverno. Sono spesso delle basse rivalità a minare la pace e il senso stesso della giustizia. Ma i cattivi governi non prevalgono, quando c’è la partecipazione degli uomini dabbene. Ambrogio Lorenzetti, a Siena, tutto ciò lo raffigura nei suoi affreschi. C’è il bene comune, personificato, che collabora con la giustizia e la sapienza. Alla quale, salomonicamente, spetta gestire la bilancia, su cui due angeli amministrano la giustizia distributiva e commutativa: così è secondo Aristotele. Non a caso c’è la concordia, seduta sotto la giustizia.
L’idea di bene comune, incardinato sulla giustizia sapiente, permea il pensiero politico di Dante. In questi canti esso si configura attraverso la complementarità tra l’”infallibilità” regale e l’“aristotelismo” cristiano. Le parole di Tommaso d’Aquino avvalorano la scelta -politica- di Salomone (XIII, vv.91-93): il re ritiene futili gli altri nobili saperi, a fronte della saggezza pratica per ben giudicare il suo popolo; e pertanto la chiede al Signore (Libro III dei Re 3, 5-12). Ecco, dunque, che questa è una saggezza autonoma. Si pone con pari dignità accanto alla suprema saggezza caritativa di Francesco e alla suprema sapienza dottrinale di Domenico. Salomone eccelle nella prudenza morale e nell’equità politica che è (dovrebbe essere) dei re. In questa qualità fondamentale della regal prudenza (versione “politica” della sapienza), dopo di lui “non surse il secondo” (X, v.114). Conferma Tommaso che tale primato relativo è di Salomone; e che la sapienza in assoluto è “del primo padre (Adamo) e del nostro Diletto (Gesù)” (XIII, v.111).
Dante conosce le difficoltà del governare gli uomini, nonché dell’autogovernarsi. Per insegnare la verità e correggere il male, mostra ogni aspetto dell’umanità e della vita. Così dispiega sul fondamento dottrinale i meandri dell’animo umano; ovvero espone il conoscibile e percorre il continente dell’interiorità. Quello che vagheggia l’introverso Petrarca, quando, sul monte Ventoso, cita la seguente riflessione di sant’Agostino: gli uomini esplorano i monti, i mari, il corso degli astri e trascurano se stessi. Il politico Dante non è così ingenuo da rimettersi alla bontà degli uomini; ma è la fede in quella di Dio a farlo sperare nelle potenzialità, anche politiche, della coscienza cristiana. Entità che sa essere forte e decisa, come si rileva dai santi, dai martiri, dalle persone semplici, ma (come Pier Pettinaio) esemplari. Non mancherebbe altro che la volontà, per agire secondo virtù. Perciò il sacrato poema mira a rafforzarla nel bene. Anche il non scegliere è vile e degradante, visto che l’inazione connota e condanna la “lunga tratta” degli “sciaurati” -tanti i cristiani- “che mai non fur vivi” (Inf., III, v.64). Dante recepisce l’idea-forza del primato dell’azione anche dalle virtù civili dei romani antichi, che fa sue e, cristianamente, rende trascende
Nino Giordano