In questi ultimi giorni, intellettuali, filosofi, giornalisti autorevoli, attori, qualche politico intelligente – la razza non è ancora del tutto estinta – ma anche molte persone comuni hanno scoperto che siamo fragili. Ma perchè siamo fragili?
Lo siamo diventati, così di colpo, dalla sera alla mattina? Oppure lo siamo sempre stati e ci ha fatto piacere fingere di scordarlo?
Quello che più mi ha colpito ascoltando, in particolare, due di queste dichiarazioni ( un giornalista ed un uomo di spettacolo) è stata l’impressione che vivessero questa consapevolezza – evidentemente nuova e sorprendente, soprattutto per il giornalista – non con i toni allarmati che ci si poteva attendere, ma quasi con un senso di liberazione. Come se questa ritrovata fragilità non venisse avvertita quale minaccia latente, ma piuttosto come momento di restituzione a se stessi, riscoperta della propria umanità, disincagliata dai mille orpelli che ci siamo inventati illudendoci di arricchirla ed invece appesantendola di troppe incrostazioni, quindi ora finalmente liberata.
In fondo, se a prima vista può sembrare sorprendente, se ci pensiamo bene non è affatto strano che sia così perchè, in definitiva, la fragilità, la precarietà della vita, il senso del limite, il sentimento della nostra finitudine, l’idea di una incompiutezza sempre da colmare, ci appartengono, sono fattori costitutivi della nostra comune umanità.
Bisogna stare lontani dai luoghi comuni e dalle frasi fatte, eppure possiamo forse sperare che, superata questa buriana, possa succedere che nulla sia più come prima? Che questa vicenda aggiunga alla nostra esperienza comune un tassello che, per quanto cercheremo di dimenticare queste settimane o mesi, resti lì, nella nostra memoria collettiva, e ne inclini l’orientamento verso una comprensione di noi stessi più ricca di umanità, cioè più
vera, più autentica, libera da tanti artefatti?
L’ epidemia, paradossalmente, per quanto limiti gli spostamenti e costringa ciascuno di noi in un’ area ristretta e circoscritta, funziona come una chiave musicale che sintonizza il sentimento profondo di ognuno e lo riconduce alla percezione di quello spazio comune e di quel tempo condiviso che la “virtualità” imperante rischiava e rischia di frammentare in tante schegge disaggregate ed incomponibili. A volte basta poco – e l’epidemia in corso non è  poca cosa – per un grande rivolgimento.
Un po’ come in quelle immagini sacre che si trovano ancora in molti Santuari del Sud – ad esempio alla Madonna di Polsi, nel cuore dell’Aspromonte – in cui compare, a tutto campo, una figura, senonchè basta, anche inavvertitamente, modificare un attimo l’inclinazione del quadro ed un’altra figura subentra integralmente.alla prima. Non è cambiato nulla nel supporto materiale del quadro; ècambiata solo, per quanto di pochissimi gradi, l’angolo di incidenza della luce e l’immagine intera si trasforma.
Chissà che, da questa esperienza difficile e dura, non possiamo ricavare un raggio di luce che suggerisca una nuova prospettiva. In fondo, mai nulla succede a caso.
Domenico Galbiati

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