Probabilmente l’unico modo per uscire dalla pandemia è cominciare a comportarci come se non dovesse finire mai. Eppure finirà.

Può esserci d’aiuto l’apologo del  Capitano e il Mozzo, tratto da una bella pagina del Libro Rosso di Carl Gustav Jung, che un carissimo amico mi ha inviato. l Capitano incoraggia il Mozzo riottoso, che non se la sente di restare in quarantena sulla nave giunta in porto e gli racconta la sua esperienza in una analoga situazione di qualche anno prima. 

Alla restrizione imposta, il Capitano ha risposto ponendosi, a sua volta, volontariamente altre restrizioni, cioè abbandonando vecchie e consolidate abitudini ed imponendosi si acquisirne delle nuove. Ha così riempito giornate che, altrimenti, sarebbero state desolatamente vuote ed il lungo colloquio tra i due  termina in questo modo:

“Come andò a finire, Capitano?”

“Acquisii tutte quelle abitudini nuove, ragazzo. Mi fecero scendere dopo molto più tempo del previsto”.

“Vi privarono anche della primavera, dunque ?”

“Sì, quell’anno mi privarono della primavera e di tante altre cose, ma io ero fiorito  ugualmente, mi ero portato la primavera dentro, e nessuno avrebbe potuto rubarmela più”.

Possiamo ricavarne una lezione che vale anche per noi. In effetti, la pandemia ci sta riconsegnando a noi stessi, evoca una responsabilità che non è collocabile in nessun altrove –  in nessun elemento strutturale, in nessuna sfera anonima ed impersonale, in nessuna dimensione collettiva – che non sia l’interiorità della coscienza personale di ciascuno.

Siamo stati crudamente, inopinatamente posti – ad un tempo, collettivamente, e ciascuno, anche chi non ha contratto il virus, singolarmente, in prima persona – di fronte all’esperienza non narrata, ma vissuta del limite che costitutivamente ci appartiene o al quale, meglio, apparteniamo. Il limite che segnala la nostra finitudine, la morte.

Decine e decine di migliaia, per restare al nostro Paese, se ne sono andati e ancora se ne vanno e poco o nulla importa la loro età media.

Quanti altri hanno sofferto quella “fame d’aria” che, soggettivamente, più di ogni altro vissuto rende così drammaticamente viva, incombente, soverchiante e così vicina, tanto da suscitare uno stato d’ansia che, a maggior ragione, blocca il respiro, l’impressione, vissuta  lucidamente, di essere lì lì per morire ?

Quanti hanno sentito la morte aleggiare nello loro stanze e portarsi via, senza neppure un saluto, una persona cara?

Quanti hanno temuto per sé o ancor più di essere tramite involontario di una morte che ghermisse le persone più care? a anche chi non ha contratto il virus, ha vissuto un’ esperienza similare e la conserva, sia pure rimossa, in qualche anfratto profondo ed inconscio della propria mente. Insomma, a questo punto, dobbiamo cambiare gioco.

Anche quando ne saremo fuori, la pandemia – questa oppure un’ altra – continuerà probabilmente ad essere un ospite sgradito, accampato alle nostre porte. on è detto, in sostanza,  che la pandemia da Covid-19 sia una sorta di occasionale “una tantum” o piuttosto l’incipit di una nuova fase storica nel braccio di ferro ininterrotto tra l’uomo ed i microrganismi che da sempre lo accompagnano.

Si potrebbe riscrivere la storia dell’umanità su questa falsariga, anzi c’è chi lo ha fatto  e ne è uscita una narrazione di straordinario interesse.

Solo una errata lettura di come davvero debba intendersi il progresso della scienza aveva consentito che si affermasse una convinzione diffusa secondo cui il capitolo della malattie infettive poteva ritenersi ridotto a poca cosa. Il clima di timore, di precarietà della vita, il sentimento di minaccia  in cui siamo precipitati da oltre un anno, il fatto che anche i vaccini siano coinvolti da un senso di insicurezza e di sfiducia, deve convincerci che davvero – non è retorica – nulla tornerà, anzi nulla dovrà tornare come prima.

Dobbiamo adattarci, anzi dobbiamo studiare nuovi stili di vita, nuovi comportamenti, adottare un nuovo abito mentale, abbandonando una ingenua idea di progresso, tale per cui possiamo impunemente e gratuitamente coltivare attese  illimitate. Senza dimenticare che, come succede a molti pazienti, anche questo malato collettivo, che addirittura si approssima pericolosamente all’ intera umanità, andrà sì incontro ad una guarigione che, ad ogni modo, non corrisponderà a quella “restitutio ad integrum”, che segnala il pieno e definitivo superamento, senza alcun esito a distanza, della  malattia.

D’altra parte, quest’ultima per molti pazienti, non è necessariamente uno scacco matto esistenziale, addirittura irrimediabile, quando la patologia fosse  francamente severa ed anzi può , al contrario, rappresentare una opportunità, perfino preziosa. Un’ occasione, altrimenti di fatto improbabile, per ripensare sé stessi e la propria vita, per prendere la misura ai propri limiti ed alle proprie potenzialità, per verificare quali siano i veri valori, ciò per cui, in ultima istanza, valga la pena di vivere o di morire. E’ frequente, più di quanto non si creda, incontrare, nella pratica clinica, situazioni di questo ordine.

Possiamo insistere su questa  analogia e sperare che anche il morbo pandemico, collettivo e planetario, possa rivelarsi un’opportunità? Forse sì, a condizione che ne leggiamo bene il messaggio.

Domenico Galbiati

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