Calogero Mannino è stato definitivamente assolto dall’accusa di aver partecipato alla “trattativa Stato Mafia”. Questione che ha tenuto banco a lungo sulle prime pagine dei giornali costandogli una lunga odissea personale ben poco ripagata dalla frettolosa archiviazione della notizia della sentenza della Corte di Cassazione, giunta a conferma delle successive assoluzioni del primo e del secondo grado. Una continuità che dovrebbe pur far riflettere i magistrati inquirenti i quali ancora faticano a prendere atto dell’assoluta inconsistenza del loro teorema.
Lo sappiamo, la questione Mafia ha sempre dato vita a molti teoremi. Sciascia ne trovava gli originatori in quelli che definiva i “professionisti dell’antimafia”. La cosa gli costò molto, così come portò alla solitudine di Giovanni Falcone. Non dimentichiamoci che l’espressione massima della lotta contro Cosa Nostra dovette perdere la vita a Capaci prima di ricevere un riconoscimento generale. Lui in vita, anche se molti oggi se lo scordano, non si vedeva perdonato il fatto di non brandire teoremi da cui partire per seguire le indagini stando ai fatti veri e alle notizie di reato vere. Forse, se Falcone e Paolo Borsellino, invece di fare gli investigatori si fossero adagiati sui teoremi correnti, sarebbero vivi e vegeti.
L’assoluzione definitiva di Mannino mi ha fatto tornare alla mente un’assolata fine estate del 1982 quando dovetti seguire da cronista il Festival nazionale dell’Unità di Tirrenia, tra Pisa e Livorno. Era la stagione in cui il Pci inanellava un successo dopo l’altro. O così sembrava, giacché poco meno di due anni prima la cosiddetta marcia dei 40 mila aveva segnato il punto dell’inversione del moto del pendolo sul piano delle relazioni sindacali e nel mondo del lavoro e, di lì a poco, Bettino Craxi sarebbe riuscito per la prima volta a portare, con se stesso, un esponente socialista, per di più direttamente concorrente dei comunisti, alla guida del Governo a Palazzo Chigi.
Come in occasione di tutti i Festival dell’Unità, i preminenti momenti di socialità del popolo comunista, riunito davvero a frotte provenienti da tutta l’Italia, fatti di libagioni e bevute tutte d’impronta popolare, erano inframezzati da dibattiti e incontri. Quelli pomeridiani non erano affatto gremiti di folla. I giornalisti se li dovevano comunque sciroppare perché lo volevano la serietà professionale, i loro direttori e l’educazione nei confronti del partito ospite. Così mi ritrovai con altri colleghi, mal riparati dal sole e dalla calura, dinanzi a un palco sotto cui eravamo più noi giornalisti che partecipanti iscritti al Pci. Il dibattito aveva un titolo che in quel momento poteva apparire strano. Suonava grosso modo così: Mafia e Terzo livello. Avremmo capito solo negli anni a seguire cosa quel titolo significasse.
Gli oratori erano quattro o cinque. Adesso, però, dopo la scomparsa dei miei taccuini di lavoro a seguito di troppi traslochi, ricordo solamente che sicuramente c’erano Luigi Colajanni, da poco chiamato alla Segreteria regionale siciliana del Pci, a seguito dell’uccisione del predecessore Pio La Torre, ed Enzo Siciliano, poi destinato a divenire Presidente della Rai per 18 mesi tra la metà del 1996 e fine ’98. La tesi di fondo era quella della Mafia guidata da un livello superiore. Evidente il tentativo di individuare questo livello soprattutto in quello politico istituzionale. Il passo era brevissimo nell’associare quel livello alla maggioranza di governo da cui il Pci era uscito dopo l’abbandono dell’idea del “compromesso storico” e la scelta per ” l’alternativa democratica” il cui presupposto principale era costituito dalla “questione morale” scoperta da Enrico Berlinguer con un’intervista concessa a Eugenio Scalfari, poco più di un anno prima del festival di Tirrenia.
Una tesi smentita apertamente, invece, da Falcone e Borsellino. Quest’ultimo disse chiaramente di fronte alla Commissione parlamentare antimafia: «Ho la convinzione, tra l’altro condivisa dal collega Falcone, dopo otto anni di indagini sulla criminalità mafiosa, che il famoso “terzo livello” di cui tanto si parla – cioè questa specie di centrale di natura politica o affaristica che sarebbe al di sopra dell’organizzazione militare della mafia – sostanzialmente non esiste. Dovunque abbiamo indagato al di sopra della cupola mafiosa non abbiamo mai trovato niente».
Magari ci fosse un terzo livello!», aveva esclamato in precedenza Falcone. «Basterebbe una sorta di Spectre, basterebbe James Bond per togliercelo di mezzo! Ma purtroppo non è così – aveva detto amaramente Falcone -, perché abbiamo rapporti molto intesi, molto ramificati e molto complessi».
Purtroppo, si tende sempre a rendere semplice ciò che è complesso e che, come nel caso della Sicilia, che si porta dietro una lunga vicenda storica, complessi equilibri sociali ed economici e, quindi, inevitabilmente istituzionali, non è sempre facile da dipanare. Soprattutto se di mezzo ci si mette lo scontro politico.
I giudici giudicanti ripetutamente hanno riconosciuto, fino al massimo grado, che Calogero Mannino è stato vittima di un teorema e i suoi inquirenti, invece di girarci attorno, potrebbero limitarsi a dire: avevamo torto. Con loro, dovrebbe farlo una parte della stampa che contribuisce a formare il giudizio partigiano preconcetto di quanti si limitano a leggere i titoli a caratteri cubitali convinti come sono di trovare sui giornali e nella televisione la conferma della loro opinione e, con ciò, sottovalutano la possibilità che la tesi di partenza possa dimostrarsi senza logica e conferma alcuna. Resta in ogni caso vaga e insoluta la questione del risarcimento che la comunità dovrebbe a coloro che, come Calogero Mannino, finiscono gettati nel tritatutto del combinato disposto magistratura / informazione per uscire dal quale hanno bisogno di decenni e decenni.
Giancarlo Infante