Se volessimo rappresentare graficamente il nostro attuale sistema politico e la posizione di quella forza che, nel linguaggio corrente, per lo più viene chiamata “centro” ed a cui molti pur diversamente aspirano, dove dovremmo collocarla?

All’ interno del perimetro che ricomprende destra e sinistra, cioè sostanzialmente interposta tra i due classici poli del bipolarismo maggioritario oppure concettualmente e programmaticamente al di fuori di tale perimetro, in una posizione sufficientemente discosta da poter cogliere di quest’ ultimo le contraddizioni in un sol colpo d’ occhio? Detto in altri termini – e non è un gioco di parole – pensiamo ad un “centro” o piuttosto ad un “baricentro”? Pensiamo ad una strategia “riformista” secondo l’ accezione classica del termine o piuttosto a quella “trasformazione” di cui è detto fin dal nostro Manifesto fondativo, che abbiamo ufficializzato a Roma, il 30 novembre 2019 (CLICCA QUI)?

Siamo viandanti sospinti o attratti – anzi, l’una e l’altra cosa insieme – su per i tornanti che culminano ad un crinale, da cui lo sguardo si distende su una stagione nuova della storia di un’ umanità che pare avvicinarsi ad un salto d’epoca, ancora avvolto da nebbie e da nuvolaglie che dobbiamo penetrare senza impazienza, leggendo quelli che una volta si chiamavano “segni del tempo”. E dobbiamo equipaggiarci per affrontare questo cammino impervio. Abbiamo bisogno di apprendere il passo di una postura dinamica, che si faccia carico di un pensiero forte, coraggioso, critico e schietto, finanche radicale, ispirato, per i credenti, a quella “carità intellettuale” di cui parlava Paolo VI.

Quale differenza corre tra queste due differenti opzioni? Il “centro” rischia di definirsi o di essere definito in ragione delle polarità estreme, che lo costringono e si impongono come sponde, argini interpretativi da cui non si sfugge.
Può aggiustare posizioni dissonanti, “moderare” gli eccessi, piuttosto che “armonizzarli” in una visione che sia in grado di ricomporli, costruire compromessi piuttosto che mediazioni. In ogni caso, alludendo ad una staticità appena temperata da una ristretta banda di oscillazione, prigioniera del tempo che le è dato, piuttosto che curiosa di un “oltre” che non sa cogliere.

Per “baricentro” intendiamo, piuttosto, una postura dinamica, un movimento “necessario” ed obbligato, che perennemente compromette le nostre certezze e ci sfida ad esplorare. Se appena il baricentro esce dalla nostra base d’ appoggio e, sia pure d’ un palmo, ci precede, possiamo evitare di cadere rovinosamente in avanti, schiacciati dal nostro stesso peso, solo inseguendolo, avanzando almeno quel tanto che lo riporti ad una condizione di equilibrio che, comunque, può attestarsi solo “oltre” il luogo da cui abbiamo preso le mosse.

Insomma, per dirla in chiave politica, l’Italia, a cominciare dal sistema politico, ha bisogno di un processo di “trasformazione”, come sostiene il documento fondativo di INSIEME. Non bastano più ricette riformiste, che all’ interno di una cornice consunta, si rivelano inadeguate. “Trasformare” significa abbandonare determinate categorie di giudizio, orientamenti, comportamenti, che si sono via via imposti di fatto – spesso a dispetto delle culture originarie che hanno guidato lo sviluppo del vivere civile – e vanno rimossi.

Si tratta di un percorso da costruire un passo dopo l’altro, secondo una visione che sia d’ insieme, eppure non può essere sfornato d’ un sol tratto. Vi sono alcuni passi iniziali che sono la premessa necessaria ed indispensabile per quelli successivi. Ed è anche opportuno dotarsi di un metro che consenta di monitorare, misurando, se l’ auspicata trasformazione guadagna terreno o meno. Nel nostro caso tale metro potrebbe essere dato dalla capacità o meno dell’ apparato politico-istituzionale di riassorbire progressivamente l’astensionismo elettorale. Il che vorrebbe dire tornare ad appassionare i cittadini e, dunque, anzitutto, riportare la politica entro gli orizzonti di senso della vita.

Abbiamo bisogno di un’ispirazione, di una forza che dinamizzi il sistema politico ed il Paese, piuttosto che assecondarne le pigrizie. Alcuni primi e concreti passi sono necessari come preliminari, presupposti di un cammino da progettate “in re ipsa”, cioè camminando dentro il processo, piuttosto che pretendere di disegnarlo a tavolino.
Innanzitutto, è urgente creare le condizioni perché gli italiani tornino a sentirsi, soprattutto le più giovani generazioni, attori e protagonisti del loro destino. Sottraendoli alla stretta soffocante di un bipolarismo, il quale , nato per consentire un regime di alternanza che “maturasse” la nostra democrazia, per eterogenesi dei fini, ha, invece, dato luogo ad una preoccupante contrazione degli effettivi spazi di partecipazione, cosicché gli italiani spazientiti hanno abbandonato le urne e consegnato il Paese alle “nomenklature” di partiti monocratica e personali.

Quanto più il bipolarismo non demorde, anzi tende a forme addirittura di bipartitismo e, per assuefazione, pare finisca per soggiogare gli italiani, tanto più, anziché abbandonare il campo, è necessario moltiplicare – ed è il secondo passo che sembra utile suggerire – i luoghi di quella che Stefano Zamagni chiama “democrazia deliberativa”, rafforzando la partecipazione e l’ arricchimento di una rappresentanza che, a dispetto delle tesi presidenzialiste, trovi il punto focale della sua piena espressione nella centralità del Parlamento.

Per quasi trent’anni abbiamo sacrificato la rappresentanza alla governabilità. Quest’ultima ha continuato ad essere precaria, ma, in compenso, abbiamo ottenuto l’umiliazione del Parlamento. E’ tempo di affermare che, al contrario, la governabilità è, piuttosto, una funzione della rappresenta, la quale, quanto più viviamo nella complessità, tanto più dev’essere in grado di dar conto, nelle appropriate sedi istituzionali, delle mille intonazioni che attraversano il corpo sociale.

La governabilità non è il prodotto di una artificiosa semplificazione delle tematiche in essere, ottenuta mutilandone le articolazioni, riducendole ad un torsolo nudo ed, in tal modo, smarrendone la sostanza, ma piuttosto della capacità paziente e determinata di ricucire le slabbrature del corpo sociale.

Un terzo punto di metodo dovrebbe essere rappresentato dalla capacità, se non altro, di affiancare al PIL e ad altri indici econometrici dello sviluppo, delle unità di misura che consentano di quantificare sistematicamente l’incremento o piuttosto la caduta di “valore umano”, come lo chiamava Aldo Moro, nel tessuto sociale: contrasto alla povertà educativa, progressivo contenimento dell’ abbandono scolastico, educazione e livelli di apprendimento, università e ricerca, consumo e, soprattutto, capacità di produzione culturale diffusa, anche qui in riferimento, anzitutto, alle generazioni più giovani.

Domenico Galbiati

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